Reportage

L’ospedale psichiatrico di Cagliari. Storia e Testimonianze.
Alcuni articoli  firmati da Giorgio Pisano
Alcuni articoli firmati da Giorgio Pisano

Un cronista al ballo dei matti

La mancanza di un’assistenza adeguata a favore di chi soffre di disagio psichico rappresenta ancora oggi una delle più dolorose piaghe della società moderna.
La scelta di affrontare la tragedia della follia e, in particolare, la tragedia che si è consumata per quasi un secolo tra le mura dell'ospedale psichiatrico di Cagliari, è nata dalla convinzione che troppo poco fosse stato detto e troppo poco fosse stato scritto in merito ad una tematica così controversa.

E tuttavia qualcuno ha indagato a fondo questa realtà, ha oltrepassato quel muro alto tre metri - quel muro costruito intorno a Villa Clara per preservare la consolidata esclusione sociale che era stata prerogativa dei matti di ogni tempo - ha aperto un varco straordinario su un mondo volutamente isolato e impenetrabile e lo ha riportato alla luce in tutta la sua contraddizione, in tutta la sua fragilità, in tutta la sua umanità.

Non era pensabile oggi parlare di Villa Clara senza dare voce a colui che ha seguito passo passo le sue vicende e che è stato senza dubbio, come egli stesso si definisce, “il cronista del manicomio”. Giorgio Pisano, classe 1950, storico giornalista dell’Unione Sarda, varca i cancelli di Villa Clara per la prima volta negli anni Settanta. Venticinque anni appena quando il suo giornale decide di affiancarlo al noto fotoreporter Josto Dal catalogo della mostra L'occhio della Cronaca di Josto Manca_ Archivio fotografico Unione SardaManca per indagare sulle frequenti morti che si registravano al manicomio. Ben tre decessi in quindici giorni, soffocamento da cibo dicevano. La causa? Una piccola controindicazione dei cosiddetti neurolettici che, oltre a mantenere i pazienti “tranquilli”, inibivano pesantemente tutte le loro capacità psicomotorie.

In quegli anni Villa Clara aveva raggiunto l’apice della sua attività: un ospedale progettato per contenere una media di trecento pazienti ne contava allora oltre millecento, molti dei quali non erano che bambini. Questi venivano sistemati nel cosiddetto camerone degli epilettici che si distingueva dagli altri per i disegni raffiguranti i più noti volti della Disney appesi alle pareti. Come se poi quei Paperini e Topolini crocifissi sui muri, fossero sufficienti a restituire ai più piccoli un’infanzia dignitosa.

È in questa occasione che nasce l’interesse di Giorgio Pisano per la materia: ”Ho finito per appassionarmi all'argomento e, nonostante facessi il cronista, facessi l'inviato, mi occupassi prevalentemente di società e di cronaca nera, il manicomio, l'ospedale psichiatrico e la psichiatria hanno sempre avuto un posticino in tribuna d'onore per me perché venivano fuori personaggi davvero singolari, di una ricchezza interiore a dir poco sbalorditiva, in alcuni casi”.

La prima volta che ha varcato le soglie di Villa Clara era un giovane cronista di soli venticinque anni. Qual'è stata la sua prima sensazione davanti ad uno scenario così disarmante?
Mi ha spaventato e terrorizzato l’idea che persone come il mio vicino di casa o il mio compagno di scrivania all’ Unione Sarda potessero avere problemi di disagio psichico che in qualche modo non fosse manifesto e che questo disagio potesse esplodere. Magari improvvisamente. C’era una sofferenza interiore che mi incuriosiva intellettualmente e nello stesso tempo mi faceva disperare, mi dicevo: “Perché a me non può capitare?”.
Per fortuna fino ad oggi non è accaduto!

Ma negli anni '70 chi erano realmente i cosiddetti “matti”?
Un matto era uno che non contava più niente, che aveva perso il suo ruolo sociale con l'aggravante di poter essere pericoloso. La gente generalizzava: depresso o schizofrenico potenzialmente aggressivo non faceva differenza. Era solo un matto e come tale doveva stare rinchiuso, messo nelle condizioni di non nuocere.

Il manicomio, a quei tempi, non era altro che una sorta di una pattumiera. Ci buttavano dentro di tutto. Un classico? Le retate della polizia in via Roma. Acciuffavano tutti quelli che chiamavano ancora “vagabondi senza fissa dimora” e li portavano al CIM, il Centro di Igiene Mentale. Una volta usciti, dove sistemarli questi miserabili che non avevano neppure un reddito se non in manicomio? Si finiva dentro per vere e proprie banalità, ricoverati e quindi dimenticati, archiviati dalla vita. E tuttavia il manicomio è stato una Dal catalogo della mostra L'occhio della Cronaca di Josto Manca. Archivio fotografico Unione Sardarealtà ricca di belle persone, ricca di umanità sotto ogni punto di vista, un mondo così conflittuale ma nello stesso tempo anche così generoso, così altruista. C’erano delle storie bellissime dentro. E c’era amore libero - peraltro ho anche il sospetto che le pazienti, almeno un paio di pazienti in terapia, tra i vari farmaci ricevessero anche pillole antifecondative. C’era poi anche uno sfruttamento da parte di un gruppo del personale. Quando arrivavano i pacchi dalle famiglie ai pazienti alcuni approfittavano di questa gente che non era assolutamente in grado di difendersi, che non poteva. Anche perchè quando qualcuno ci provava, quando aveva un lampo di lucidità, veniva regolarmente massacrato.

Quindi li picchiavano?
Massacravano è il termine esatto. Li picchiavano. E anche molto molto duramente. Le scene di violenza sono inevitabili nel rapporto assistenziale. Infermieri maneschi. Poi qualcuno di loro secondo me era proprio malato, un sadico dentro intendo. Alcuni pazienti - che noi vedevamo dai bagni del liceo scientifico Pacinotti, che ho frequentato - stavano tutta la mattina al sole nel cortile. Talvolta completamente nudi. Indipendentemente dalla stagione. Poi venivano chiamati per il pranzo in maniera qualche volta brusca qualche volta meno. Ricordo sempre un infermiere che li chiamava col piede. Dava loro un calcetto, sistema che io non ho mai adoperato neppure col mio cane.

La psichiatria del tempo faceva ampio uso e abuso di psicofarmaci e si avvaleva delle più disparate terapie. Quali erano le più diffuse?
Molti psichiatri che son stati sul campo - compreso quello che ho intervistato due anni fa e che lavorava a Villa Clara - raccontano come provocassero nei pazienti depressi lo shock insulinico. E alla domanda: “Scusi e quando non funziona?” “Pazienza!” Pazienza per il paziente perché era morto! Questa era una terapia parallela all’elettroshock e a me faceva veramente impressione e dicevo: “Dio mio se finisco nelle mani di questa gente che cosa ne sarà di me?”. Mi spaventava l’idea che nella maggior parte dei casi ci fossero delle persone che disponevano per te, che tu spessissimo non eri al corrente neppure della terapia che ti facevano, che ti levavano tutto. Dignità inclusa. E tu non eri che un oggetto e non ti rimaneva che sperare nel buon cuore e nella disponibilità altrui. E fortuna che c’era anche questo. C’erano sia medici che infermieri che erano delle persone per bene, solidali, attenti nei confronti dei pazienti e intendiamoci, erano sicuramente la maggior parte.

E poi ogni tanto si insinuavano i farmacologi che testavano sui pazienti del manicomio nuovi principi attivi volti alla cura di questa o quell’altra patologia. Sperimentazione a tutti gli effetti. Questo è stato il manicomio per molti anni.

La terapia elettroconvulsiva, più nota come elettroshock, veniva applicata a tutti i tipi di disturbi emotivi e tutt’ora, anche se limitatamente ad alcuni casi specifici, diversi psichiatri ricorrono ad essa. Si può considerare una terapia efficace?
C’è una corrente di pensiero che sostiene che sia assolutamente necessario nelle depressioni acute a rischio suicida. Bene ce n'è un’altra, che oggi va per la maggiore in ambito psichiatrico, che invece sostiene che chi usa l’elettroshock sia un criminale, qualcuno che avrebbe bisogno di mettersi in analisi, sicuramente affetto da una buona dose di sadismo. Io stesso ho diversi amici psichiatri che praticano l’elettroshock in casi di assoluta necessità .

E qual è il loro parere? Funziona?
Assolutamente. Nelle depressioni gravi, quelle gravi davvero, l’elettroshock è una via di salvezza. O almeno una via di salvezza davanti alla prospettiva di un suicidio lampo. Senza contare che il suicidio si può considerare “la prova provata” del fallimento della terapia dello psichiatra: se un mio paziente si suicida vuol dire che io ho sbagliato. Non c’è possibilità d’errore.

Nonostante tutto si può dire che il manicomio guarisse i pazienti?
No. Da un punto di vista terapeutico aveva assolutamente ragione Basaglia: il manicomio era dannoso. Non poteva aiutare. Quello che poteva garantire era un letto e un pasto. Una persona che magari arrivava con una piccola depressione nel tempo finiva inevitabilmente per assumere tutta un'altra serie di problemi che aveva visto manifestarsi negli altri pazienti. Una sorta di emulazione involontaria.

Ricorda un episodio che l'ha colpita particolarmente?
Ho assistito a moltissimi episodi che mi hanno toccato. Mi ricordo sempre il malato di Villa Clara a cui Josto aveva offerto una sigaretta: teneva le dita strette proprio come tenaglie e stava fuori al sole nella sua sedia. Dopo averlo aiutato ad accendersela ci eravamo allontanati per prendere delle cose. Quando siamo tornati ci siamo accorti che la sigaretta gli stava bruciando le dita e che lui non era in grado di aprirle perché era bombardato di neurolettici. Bloccato. Ricordo che si sentiva l'odore della carne. Pollo bruciato. Non l'ho mai dimenticato, ce l'ho ancora nelle narici.

Nel suo libro “Lista d'attesa” - Pisano Giorgio 1999, Lista d'attesa, Demos editore, Cagliari ( I Lestrgoni 14) - lei racconta di aver partecipato anche ad un ballo dei matti. Com'è stato?
Indimenticabile. Lei Conosce il manicomio? Entrando sulla destra dopo l’ufficio della direzione c’è una specie di piccolo caseggiato e lì è stato organizzato un ballo stupendo. C’erano tutti i pazienti sia del reparto donne che del reparto uomini, tutti istruiti su come si sarebbero dovuti comportare. Il ballo era in qualche maniera il segno di una psichiatria che interrogava se stessa, che cercava nuove strade per rendere la qualità della vita di questi poveri disgraziati appena appena più decente.

É evidente che la vita dell' ospedale psichiatrico era inevitabilmente scandita anche da episodi drammatici. Qual' è la vicenda peggiore a cui ha assistito?
Un suicidio più o meno in diretta. Un paziente che si tagliava con la lametta piano piano. Sedeva in una panchina davanti all'ufficio della direzione, faceva l'idraulico. Una cosa lenta. Un suicidio meditato. Non ho mai capito perché l'abbia fatto sedendosi proprio là. Ha iniziato a tagliarsi le braccia, poi le gambe, poi il torace, lentamente. Il sangue zampillava in alcuni punti. Intorno pochi pazienti che lo guardavano, lo chiamavano - mi pare che il suo nome fosse Mario - e lui continuava. É morto dissanguato. Quando sono arrivati a soccorrerlo non c'era più niente da fare.

Tra le persone che ha avuto modo di incontrare nel corso delle sue numerose incursioni a Villa Clara, ce n' è qualcuna che le è rimasta particolarmente impressa?
Diverse. La principessa Muratti mi faceva una tenerezza infinita. Era una creatura dolcissima, totalmente indifesa. Rimaneva malissimo se qualcuno - come era capitato - le dava uno schiaffo, come un bambino che non capisce una punizione troppo dura. Si poteva incontrare anche in via Roma. Indossava dei vestiti a quadretti bianchi e rossi o bianchi e blu. Ha presente la classica tovaglia da trattoria? E poi aveva un grande fiocco rosso in testa. Sembrava un uovo di Pasqua. Non ho mai saputo per quale motivo fosse ricoverata. Si, probabilmente aveva una qualche mania. Ma scagli la prima pietra chi non ce l’ ha.

Dal catalogo della mostra L'occhio della Cronaca di Josto Manca. Archivio fotografico Unione SardaMi ricordo il vecchietto che chiamavamo “Signori miei” perché utilizzava spessissimo quest'espressione per intercalare. Era una delle persone più buone che avessi mai incontrato nella mia vita. Si prendeva cura di un ragazzino, Giulietto, dodici anni. Ed era veramente un padre per lui, non esisteva un rapporto che fosse torbido o ambiguo. Lo proteggeva realmente da tutto e da tutti. Faceva sorridere perché lui stava in piedi veramente per scommessa.

Poi c'era Maria, una vecchina minuta, una persona straordinaria di grandissima sensibilità. Cattiva anche, in certi momenti. Parlarle era un piacere: lei non aveva filtri. Del nostro conformismo, del nostro perbenismo, delle nostre regole, non le importava molto, come diceva lei “ci si faceva il bidet”. Aveva un rapporto diretto, immediato. Ti diceva verità che erano francamente urticanti, però valeva la pena ascoltarla.

Il 18 marzo 1998, ben vent'anni dopo l'approvazione della Legge Basaglia, l'ospedale di Villa Clara chiude definitivamente. Dove vivono oggi gli ex pazienti?
Alcuni dei pazienti storici oggi sono al Poetto, al centro AIAS. Sono andato a trovarli - uno tra l'altro credo anche di ricordarlo però non sono sicurissimo. É una bella lezione di vita incontrarli in questo reparto e aiuta a crescere mentalmente, a capire che cos'è la diversità e come la diversità possa essere una risorsa.
Al mio arrivo mi ha accolto un vecchietto di ottant'anni appena, sono entrato, mi ha abbracciato, un bacio nella guancia, un bacio nell'altra: “Vieni”,mi ha detto facendomi strada in reparto. Vengono trattati benissimo lì, benissimo. Proprio un'altra vita.
A suo tempo invece Maria era tornata a casa sua. Abitava in una specie di scantinato in castello e io andavo a trovarla la mattina per sapere come stava.

Da cronista avevo in mano un potere che era quello di prestare la mia voce a loro che non ne avevano. Non avevano alcuna possibilità né di difendersi, né di esprimersi. Ma attraverso il giornale, che esercitava una sorta di controllo sul manicomio, queste persone potevano essere tutelate. Ed io ho cercato di farlo con tutti i mezzi che avevo a disposizione.

Dal catalogo della mostra L'occhio della Cronaca di Josto Manca. Archivio fotografico Unione Sarda

Giorgio Pisano ha saputo dar voce agli abitanti di Villa Clara come nessun altro portando finalmente al di là del muro tutte le piccole follie, le tacite sofferenze, le assurde e insensate crudeltà, le ingiustizie, ma anche gli intelletti vivaci, i cuori generosi, i buoni sentimenti perfino.

Eppure il merito non è tutto suo giacché, come egli stesso tiene a sottolineare “un cronista che non è in sintonia col collega fotografo è un cronista dimezzato”.
Ed infatti sarebbe stato davvero difficile, oggi, dare un volto concreto ai protagonisti delle vicende sapientemente narrate da Pisano senza il lavoro fotografico d'eccezione realizzato dal suo collega ed amico, lo storico fotoreporter dell’Unione Sarda, Josto Manca che lo ha affiancato nel corso di tutta l’ inchiesta.

Decine, centinaia le foto scattate da Manca tra le mura di Villa Clara, immagini che costituiscono una testimonianza di inestimabile valore, che consegnano alla storia quei profili visibilmente alterati dalle asperità della malattia, quelle movenze, lente per lo più, ovattate dai farmaci, quei sorrisi a pieno viso, ma incompleti, quella molteplicità di sguardi che solo lontanamente fanno presagire l'indistinto turbinio interiore, immagini che, in ultima analisi restituiscono anima e corpo all’ex nosocomio e rappresentano un preziosissimo spaccato della realtà manicomiale della Cagliari degli anni '70.

Nel 2010, a distanza di oltre trent’anni da allora, Giorgio Pisano, in collaborazione con Max Solinas, ha realizzato una straordinaria mostra fotografica patrocinata dalla Provincia di Cagliari, “L'occhio della Cronaca”, e volta rendere omaggio all'operato del collega, mostra che includeva per lo più le immagini di Villa Clara, ma anche alcuni degli scatti più significativi della carriera di Manca – da Madre Teresa di Calcutta ad Adriano Celentano, dai casotti del Poetto alla neve dell'85 a Cagliari, dal sequestro Guglielmi allo scudetto del '70.

“E' una mostra che ho voluto con tutte le mie forze - confessa Pisano - perché Josto Manca è una persona meravigliosa di una disponibilità e un altruismo assoluti. È stato l’equivalente di un fratello maggiore per me”.

Com'è nata l'idea di una mostra?
A me interessava testimoniare l'importanza e il significato delle sue foto a titolo di pura e sincera amicizia.

Considerata la delicatezza della tematica affrontata, gli scatti che costituiscono il nucleo centrale della mostra sono stati sottoposti ad una qualche forma di censura?
No, in realtà no.
Josto aveva scattato un’infinità di foto. E tuttavia molte sono sparite. E sono sparite anche perché lui non ha mai avuto una grande stima di se stesso: “Giorgio, mi diceva, è robetta questa”. E, anche se io insistevo nel sottolineare il valore che avrebbero assunto come testimonianza di quegli anni, lui restava comunque convinto di non essere un grande fotografo. È incredibile: era straordinariamente umile.

Tra le immagini andate perdute, ne ricorda qualcuna di particolare intensità?
Si, per esempio Josto aveva scattato una serie di foto dove c’erano delle donne completamente nude rinchiuse nelle celle. Stavano a quattro zampe. Vivevano esattamente come animali: defecavano, mangiavano, facevano tutto lì. Sempre.
Ogni tanto il sorvegliante apriva lo spioncino per controllare se per caso una aveva cavato gli occhi all’altra. Dopo di che richiudeva. Vivevano in queste condizioni.

Non c’è alcuna possibilità di riportare alla luce, magari in futuro, almeno qualcuna delle foto momentaneamente disperse?
Chissà! Secondo me sono in uno scantinato della casa di Josto. Queste sono venute fuori grazie a suo figlio che lavora all'Unione Sarda proprio come lui. Praticamente lo minacciavo, gli dicevo “Gigi tu devi trovare queste foto perché noi dobbiamo fare una mostra su tuo padre”. E lui rinviava perché ha tanto da lavorare. Insomma come il papà. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta.

Per noi era un doveroso atto di giustizia nei confronti di Josto.