Fra i protagonisti della prima giornata di “Traghetti di poesia”, il festival che da oggi (alle 18) fino a domenica, nello spazio Search, nel sottopiano del Palazzo Civico nel largo Carlo Felice, a Cagliari, propone letture, video e incontri con alcuni fra i poeti più importanti della scena contemporanea, c'è il milanese Maurizio Cucchi, che ha licenziato da poco, per Mondadori, la sua nuova raccolta, Vite pulviscolari . Un libro che colpisce, oltre che per il consueto radicamento nel vissuto, per la tensione metafisica risolta in un linguaggio piano, preciso, pacato, luminoso. Fin dalla fulminante poesia iniziale: Presto saremo tu e io senza ormai tempo / risucchiati senza tormenti o gioie, senza / né corpo né afflizioni, assorbiti in una nube, / in una bolla definitiva d'aria.
«Ho sempre usato un linguaggio piano - spiega il poeta - attingendo dai registri medi e bassi. La semplicità è sempre stata per me il traguardo da raggiungere, anche se poi è irraggiungibile».
In questo libro le poesie sono sempre rivolte a un “tu”.
«Soprattutto nella prima sezione, che è tutta rivolta a mia madre. Un colloquio tardivo, come spesso avviene fra figli e genitori. Nelle altre sezioni ci sono altri “tu”. Alcune sono poesie d'amore, il genere più difficile da praticare».
Perché?
«Il rischio è la “canzonettizzazione”, che è ciò che avviene quando il sentimento non è controllato nella forma. Se ne vedono tante, di scemenze scritte da benintenzionati».
Di poesia se ne scrive più di quanta se ne legga.
«Si scrivono molti versi, ma non tutti sono poesia. È un fenomeno, più che strano, sciocco: chi ama davvero la poesia ama, prima di tutto, leggerla. Pretendere di scrivere senza leggere è come credere di poter andare in un paese straniero e parlarne la lingua senza averla studiata: la poesia è un'arte, occorre conoscerne gli strumenti per poterla praticare».
La scuola, con i programmi che quando va bene si fermano a Montale, fa la sua parte?
«A scuola si studia la poesia classica ma neanche bene: facendone un mero oggetto scolastico, si dà ai ragazzi la sensazione che non sia una cosa che li riguardi personalmente. Il guaio è che gli insegnanti non vengono istruiti a istruire».
Eppure i ragazzi scrivono: lei tiene da anni una rubrica, prima per “Lo specchio” e ora per “Tuttolibri”, e pubblica molte poesie che le spediscono i lettori. Soprattutto giovani.
«Proprio così. E scrivono con impegno e consapevolezza formale, non sciocchezze. È sorprendente, pensando a quanto poco i media si occupino di poesia: il bisogno di una parola forte, che dica veramente, è profondamente radicato».
Internet offre luoghi di confronto, per i poeti?
«È piuttosto come un mare indifferenziato. La sua è una falsa democraticità. Un giovane ha bisogno di strumenti garantiti: se leggo un'antologia, per esempio, devo sapere chi ha scelto autori e testi e secondo quali criteri: sul web, troppo spesso, queste garanzie mancano».
Lei di antologia sulla poesia contemporanea italiana ne ha curata una, per i Meridiani Mondadori, nel 1996: bella responsabilità, da poeta, calarsi nei panni del critico.
«Ovviamente, in questi casi, chi non viene scelto se la prende con chi sceglie. In realtà, però, sono da sempre i poeti a indicare, fra i giovani, quelli che vale la pena di leggere. Zanzotto, per dire, fu proposto da Ungaretti».
Quali sono stati i suoi modelli di riferimento?
«T. S. Eliot, prima di tutto: la scoperta del suo Prufrock , da ragazzo, è stata determinante, per l'inserimento della prosa nella poesia e la scelta di una lingua comune. Più avanti ho letto molto i poeti un po' (e a volte molto) più grandi di me: Sereni, Giudici e Raboni soprattutto, portatori di grandi aperture e grande novità. Poi Delio Tessa: non per la scelta del dialetto quanto per la sua narrazione franta, per soprassalti, e la psicologia così profonda, complessa, novecentesca dei suoi personaggi».
MARCO NOCE
27/11/2009