Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

A Cagliari «Hair» Un inno alla libertà e contro la guerra

Fonte: La Nuova Sardegna
7 agosto 2009

VENERDÌ, 07 AGOSTO 2009

Pagina 32 - Inserto Estate
di Gianni Olla

CAGLIARI. «Hair», il musical rock, hippie, ribellistico, pacifista, scritto da James Rado e Gerome Ragni e musicato da Galt McDermot a metà degli anni Sessanta, arriva a Cagliari in una versione italiana (ma non nei brani), messa in scena da Giampiero Solari, con la direzione musicale di Elisa, per Il Teatro delle Erbe. L’appuntamento, con lo spettacolo nato da esperienze autobiografiche dei due autori/scrittori, è stasera, 21.30, all’Anfiteatro Romano.
Esordì nell’ottobre del 1967 in un teatro off-Broadway, senza troppo clamore, per poi passare l’anno successivo nel più celebre Baltimore Theatre. Il successo dilagò, musiche e brani cantati fecero il giro del mondo. La vicenda di «Hair» e già simbolizzata dal titolo: capigliatura, possibilmente lunga e scarmigliata, simbolo anti borghese che l’incontro con la leva militare in Vietnam avrebbe drasticamente eliminato. Difatti lo scenario principale del musical è una “tribe” di hippies che sentono arrivare l’ora della partenza e non sanno se ricorrere al rito del bruciare le cartoline di richiamo alle armi, o prepararsi a morire nelle paludi del sud est asiatico, lasciando i loro amori e le loro speranze di un mondo finalmente felice. Anche fuori dal contesto teatrale, i brani musicali più famosi, da «Aquarius» a «Let the sunshine in», da «I got life» a «Ain’t got» no furono, per molti anni, un refrain accostabile al miglior pop anglo americano e sicuramente aiutarono la diffusione dell’inglese nelle scuole, visto che i testi si prestavano a traduzioni più semplici e gradite dei classici letterari.
Come per il pop e il rock post Woodstock, ci si può chiedere quale pubblico troverà, o abbia già trovato nella precedente circuitazione italiana. La risposta è semplice: se Woodstock è rimasto in una lontananza di evento unico, facile da mitizzare come esplosione spontanea di vitalità giovanile, Hair, nato come adattamento della controcultura ad una forma di spettacolo tipicamente americana - l’operetta del nuovo mondo - sconfinò da subito nei territori borghesi (con qualche scandalo per quei corpi nudi che si agitavano in balli tribali e per quella canzone che raccontava un amplesso con molti dettagli) e non è detto che incontrasse necessariamente il pubblico, già di massa, della contestazione, ma semmai quello dei futuri divi del pop.
In Italia, ad esempio, fu tradotto e programmato nel 1970; nel cast, come coristi o caratteristi, c’erano persone con un grande avvenire nel mondo dello spettacolo: Loredana Bertè, Renato Zero e Teo Teocoli, quasi irriconoscibile con zazzera e basette da capellone che ricordavano Easy Rider. Arrivò anche a Cagliari, al Teatro Massimo, e già in quel ricordo lontano c’è la percezione di una frequentazione normalizzata che ricalcava l’odio/amore verso gli Stati Uniti d’America, componente importante della cultura europea post bellica.
L’esempio più chiaro, ed anche più onesto, di questo atteggiamento fu la versione cinematografica che Milos Forman girò nel 1979. Nato sotto l’occupazione nazista (perse entrambi i genitori a Auschwitz), cresciuto e formatosi con il regime comunista, Forman ebbe la fortuna - forse calcolata - di poter guardare alla repressione del’68 praghese dagli Stati Uniti, dove si trovava con una delegazione di cineasti. Vi rimase con entusiasmo, e dopo aver firmato un film contro il conformismo e l’ipocrisia familiare americana (Taking off) e uno straordinario apologo sugli universi concentrazionari (Qualcuno volò sul nido del cuculo, tratto da un romanzo scritto da un esponente della contro cultura underground, Ken Kesey), accettò di trasporre sullo schermo «Hair» con una motivazione semplicissima: era un inno alla libertà e contro la guerra che si poteva realizzare solo negli Stati Uniti d’America, il paese che, appunto gli aveva restituito la libertà.