La Cagliari che non c’è più. Il Mercato civico del largo, orgoglio della città e descritto da Lawrence, di cui non rimane quasi più niente
La Cagliari che non c’è più. Il vecchio Mercato civico del largo, orgoglio della città e descritto da Lawrence, di cui non rimane quasi più niente. Nel marzo del 1886 venne inaugurato nel largo Carlo Felice il Mercato civico, progettato dall’ingegner Enrico Melis, allievo dell’architetto Cima. Prima di allora il mercato aveva sede, sempre nel largo, in baracche provvisorie. Il mercato, visitato da Lawrence nel 1921 e descritto nella sua opera Mare e Sardegna, era formato da due fabbricati distinti e separati da una strada, oggi detta via del Mercato Vecchio.
L’edificio principale era formato da un prospetto in cui si distinguevano tre avancorpi in trachite di Serrenti. Dall’avancorpo centrale, tramite un ampio arco trionfale, si accedeva all’interno, coperto da lastre di vetro rette da strutture portanti in ghisa e ferro. L’edificio minore (chiamato dai Cagliaritani “Partenone”) era invece caratterizzato da un bel porticato, sostenuto da colonne doriche che reggevano una trabeazione decorata da metope e triglifi, realizzato in trachite di Serrenti. Fuori dal mercato erano soliti radunarsi i “piccioccheddus de crobi”, i “ragazzi della cesta”, giovani poverissimi che raggranellavano qualche spicciolo aiutando le signore cagliaritane a fare la spesa.
Il complesso del vecchio mercato venne demolito negli anni Cinquanta del XX secolo, quando il comune di Cagliari cedette l’area ad alcune importanti banche, che edificarono, al posto dello storico monumento, le loro sedi, nei palazzoni che si vedono ancora oggi. Resti del vecchio mercato (trasferito poi nell’attuale sede, nel quartiere San Benedetto) sono ancora visibili: uno dei tre avancorpi dell’edificio principale e alcune parti delle colonne dell’edificio porticato, sistemate nella piazza della chiesa della Vergine della Salute, al Poetto. Altri rocchi si trovano invece ai piedi di Monte Urpinu.
La costruzione del mercato cominciò nel settembre del 1882 sulle fondamenta dell’ex convento di Sant’Agostino. Fu immediatamente apprezzato da architetti e ingegneri, soprattutto nella Penisola. Quasi tutto ciò che rimane (rocchi delle colonne a parte) è inglobato nella facciata della Retoria di Sant’Agostino e negli edifici della zona retrostante, tra via Baylle e via del Mercato Vecchio, la quale fino al momento della demolizione separava le due strutture. Della seconda di queste rimane ben poco: ancora dopo tanti decenni dallo smantellamento non si è trovata una collocazione alle colonne cui si deve il familiare epiteto con cui i cagliaritani ribattezzarono il mercato inferiore: l’ingresso, così simile al pronao di un tempio greco, gli valsero il nomignolo di “Partenone”.
L’idillio tra Cagliari e il suo mercato ebbe vita breve: negli anni precedenti il boom economico la struttura fu considerata obsoleta e poco adeguata all’espansione della città, restando esclusi dal servizio i quartieri più lontani dal centro storico. Motivi sufficienti per i Cagliaritani che, pur volendo trasformare il Largo nel “salotto buono” della città, non erano però intenzionati ad abbattere gli storici edifici, quanto piuttosto a riqualificarli. Numerose petizioni giunsero alla redazione dell’Unione Sarda, che stimolò la fantasia dei lettori sulle potenziali destinazioni d’uso del vecchio mercato.
Sorda a queste richieste, l’Amministrazione comunale andò avanti per la sua strada, forte delle necessità logistiche ed igieniche, consapevole della variabile economica: le due strutture furono vendute e smantellate in un breve lasso di tempo, lasciando poche tracce, oltre a quelle nella memoria dei Cagliaritani.
“Ma c’è anche la signora di Cagliari che va a far la spesa, accompagnata da una serva con un enorme paniere di paglia intrecciata, o ne ritorna, seguita da un ragazzino il quale porta sul capo una di quelle enormi ceste di paglia intrecciata che sembrano piatti enormi, che riempiono di pane, uova, verdura, pollame e così via. Seguiamo la signora che va al mercato e ci troviamo nel vasto mercato coperto, splendente d’uova: uova nei grandi panieri tondi di paglia dorata, uova a pile, a montagne, a mucchi, una Sierra Nevada di uova, splendenti di un bianco caldo. Come ardono! Non me ne ero mai accorto prima. Diffondono nell’aria un fulgore perlaceo, quasi un calore. Un tepore oro perlaceo, pare. Miriadi d’uova, splendenti viali d’uova.
È il mercato della carne, del pollame e del pane. Ci sono banchetti di pane fresco di varie forme, bruno e lucente. Piccole bancarelle di meravigliosi dolci locali che mi vien voglia di assaggiare, carne in quantità e capretto, e bancarelle di formaggio, tutte le forme e le qualità di formaggi, in tutte le sfumature del bianco e del crema, fino al giallo narciso. Formaggio di capra, di pecora, formaggio svizzero, parmigiano, stracchino, caciocavallo, provolone, e quanti formaggi di cui non conosco il nome! Ma costano press’a poco come in Sicilia: diciotto, venti, venticinque lire il chilo. E c’è il prosciutto delizioso, a trenta e trentacinque lire il chilo. C’è anche un po’ di burro fresco, a trenta o trentadue lire il chilo. Ma in genere il burro è in scatola e viene da Milano. Costa quanto quello fresco. Ci sono splendenti mucchi di olive nere salare ed enormi barattoli di olive verdi in salamoia. Ci sono polli, anatre e selvaggina: a undici, dodici e quattordici lire il chilo. C’è la mortadella, l’enorme salame di Bologna, grosso come un pilastro di chiesa, a sedici lire. E qualità diverse di salami più piccoli da mangiarsi affettati. Una magnifica ricchezza di cibo che riluce e splende. Siamo un po’ in ritardo per il pesce, specie il venerdì. Ma un uomo scalzo ci offre due misteriosi abitanti del Mediterraneo, che pullula di mostri marini.
Le contadine siedono dietro la loro merce, gonfie come palloni attorno ai corpi le sottane multicolori di cotone tessuto a mano. I gialli panieri sprigionano bagliori di luce. Si ha di nuovo un’impressione di abbondanza, ma non di prezzi bassi, purtroppo, a parte le uova. Ogni mese i prezzi aumentano.
«Voglio venire ad abitare a Cagliari per fare la spesa qui – dice l’Ape Regina – Voglio uno di quei grandi panieri». Scendemmo fino alla stradina: ma vedemmo affiorare altri panieri da un’ampia scalinata di pietra, coperta. Perciò salimmo, e ci trovammo al mercato della verdura. Qui l’Ape Regina si divertì ancora di più. Dietro i mucchi di verdura sedevano le contadine, scalze alcune, nei rigidi corpetti, nelle voluminose sottane variopinte, e mai mi accadde di vedere più deliziosa mostra. Pareva predominare il verde cupo e intenso degli spinaci, da questi spuntavano monumenti di cavolfiori bianco ricotta e viola scuro: cavolfiori meravigliosi, come fasci di fiori, intensi e purpurei come grandi mazzi di violette. Su questa massa verde, bianca, purpurea spiccava l’acceso rosa scarlatto il cremisi dei ravanelli, grandi ravanelli a mucchi, come piccole rape. Poi le lunghe, slanciate gemme verde e porpora dei carciofi, e oscillanti grappoli di datteri, e mucchi di fichi bianchi coperti da una polvere zuccherina e cupi fichi neri, e lucenti fichi tostato: ceste e ceste di fichi. Qualche cesto di mandorle e molte noci, enormi. Basse ceste di uva passa locale. Peperoni scarlatti simili a trombe, magnifici finocchi bianchi, grossi e succulenti, cestini di patate novelle, rape squamose, mazzetti di asparagi selvatici, sparacelli col boccio giallo, grasse carote lisce, insalate ricciute dal cuore bianco, lunghe cipolle marrone porpora e poi, naturalmente, piramidi di pallide mele, ceste di lucidi e brillanti mandarini, le piccole arance di Tangeri con le foglie verde scuro. Mai come nel mercato coperto di Cagliari, il fresco, lucente mondo ricco di colori della frutta mi era apparso così splendido, puro e fastoso. E costa tutto relativamente poco, a parte le patate. Le patate di ogni tipo vanno da 1.40 a 1.50 il chilo.