Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

«Il teatro è Shakespeare» Pecci, gli uomini e il mito

Fonte: L'Unione Sarda
26 gennaio 2017

Sino a domenica l'attore è al Massimo di Cagliari con “Amleto”

 

 

I l reale valore dei classici, quando si parla di opere capaci di attraversare i secoli e scansare i facili oblii delle mode e le brutture dei revisionismi storici, risiede non tanto nel loro essere testimonianza di modi e i mondi passati tra allegoria, fantasia e cronaca, quanto nel raccontare, in eterne forme trasfigurate, sempre feroci, sempre vive, gli eterni ritorni del presente e il riflesso di possibili futuri. In essi l'uomo è nudo, spogliato strato dopo strato fino a esporne le viscere e i più impercettibili moti dell'animo. È così che nel teatro, che di questo svelamento è luogo privilegiato, non assistiamo solamente al dipanarsi di storie, evolversi di personaggi e traiettorie narrative, ma in quanto spettatori, diveniamo al contempo soggetti guardanti e oggetti dello sguardo: assistiamo a un estraneo seduttivo che in realtà parla di noi e per questo è impossibile da ignorare. Quindi è da considerarsi quasi una forma di autoanalisi, di terapia, quando si ha l'occasione di confrontarsi con questo genere di oggetti: a maggior ragione se l'opera in questione è l'Amleto di William Shakespeare, fino a domenica in scena al Teatro Massimo di Cagliari. Regia e adattamento sono a cura di Daniele Pecci, il quale interpreta anche il ruolo del principe di Danimarca al fianco di Maddalena Crippa nei panni di Gertrude.
Pecci, in passato si è confrontato con l'Edipo Re sofocleo e la Medea di Euripide che storicamente hanno avuto il merito di spostare la centralità dal divino all'umano e alla sua interiorità. Ora, con Amleto, continua idealmente questo percorso. Che importanza hanno per lei queste opere?
«Questo tipo di teatro è stato quello che ho studiato fin da quando ero ragazzo. Mi ha sempre affascinato. L'ho percorso praticamente tutto fin da quando avevo vent'anni. I grandi ruoli shakespeariani o sofoclei, sono sempre stati il mio sogno e penso valga per tutti quelli che fanno il mio mestiere. Sono un punto di riferimento».
Quanto sono attuali, secondo lei, le tensioni che stanno alla base del testo shakespeariano?
«Shakespeare, in un periodo storico molto particolare, nel pieno dell'età moderna, è stato capace di cogliere alcuni elementi distintivi dell'essere umano che sono tutt'oggi inalterati e sarà sempre così, almeno fino a quando non diventeremo esseri artificiali o non entreremo in contatto con entità aliene capaci di cambiare la nostra natura. I motivi che abbiamo di temere il futuro, l'impegno, la morte, il dolore sono gli stessi che hanno scosso i grandi eroi del periodo shakespeariano».
Nel suo adattamento ha scelto di restare fedele al testo. Come mai è importante preservare i versi originali?
«Perché faccio teatro di parola e la parola viene prima di tutto. Sono un suo servitore e cerco di esaltarla oltre ogni pretesa stilistica e concettuale. Sono semplicemente un interprete. Già la messa in scena è una riscrittura: se mi mettessi anche a riscrivere i versi per dire delle cose che riguardano me, non farei il mio lavoro».
Come ha costruito l'opera?
«Volevo realizzare uno spettacolo che da un lato portasse avanti la tradizione e dall'altro fornisse al pubblico una chiave di lettura contemporanea. Nell'adattare la tragedia ho cercato di utilizzare un linguaggio semplice e schietto, puntando sulla prosa shakespeariana più che sul verso e la lirica barocca che rischiavano di essere meno colloquiali. La messa in scena che ci ricordasse un secolo vicino, come il Novecento, con allusioni agli anni trenta e quaranta.
Mi sono affidato a recitazione diretta, autentica, senza sovrastrutture che potesse avvicinare gli spettatori al racconto e ho scelto di costruire tante grandi macro-sequenze, raggruppando azione temporale e spaziale in un unico luogo e in un unico tempo così che non si perdesse mai l'attenzione».
Dopo anni di televisione, cinema e teatro, qual è la sua dimensione performativa preferita?
«Il teatro, in assoluto. È quella che ho studiato di più, preparato di più, per la quale mi impegno di più. I miei sogni sono tutti lì».
Marco Cocco