Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Addio a Giulio Angioni, il rigore dell'entusiasmo

Fonte: L'Unione Sarda
13 gennaio 2017

Lutto L'intellettuale aveva 77 anni. Sulle pagine de L'Unione il suo primo racconto

 

O ggi si sta in quattro in sala chemio/adagio, distillando dalla flebo/ciascuno un suo dolore. Scriveva così, il giorno di Natale, Giulio Angioni, dalla sua stanza dell'ospedale Businco di Cagliari, aggrappandosi alla poesia come alla salvezza di un corrimano. Una delle ultime, pubblicata tre giorni fa sul social che aveva scelto per comunicare con amici e allievi, ha il valore di un testamento ideale. Quando non si saprà/di te che sarai stato/dell'albero che un giorno avrai piantato/in una terra smemorata/e la parola d'aria respirata/ sarà altra cosa in chissà quale stato/tu forse lo saprai/che qui e ora sei.
Ieri mattina il Professore se n'è andato, nella sua casa. Lottava da mesi contro un cancro. Dotato di un'ironia talvolta amara e spiazzante, e di un “austero entusiasmo” (così lo ha felicemente descritto l'amico Antioco Floris, era un intellettuale rigoroso, un antropologo, un saggista, uno scrittore, e un poeta. «La vita è lì, è lì», gli aveva scritto anni fa Alberto Mario Cirese, suo amico e suo maestro, con Ernesto De Martino, riferendosi alla scrittura. E lui lì l'ha trovata, sino alla fine.
Settantasette anni il 28 ottobre scorso, docente di Antropologia culturale all'Università di Cagliari dal 1981 al 2009, dalla sua Guasila era andato via, per studiare, e a Guasila era tornato, nel modo più pieno, grazie ai suoi studi. Da subito aveva scoperto che dal paese non doveva fuggire, ma tornarci, e amare la sua gente, per ritrovarla altrove. «Noi sardi parliamo troppo, e spesso a sproposito, di identità», disse qualche anno fa in un'intervista al giornale. Aggiunse che l'identità può essere salvifica e micidiale. «L'identità buona è quella che gode del felice oblìo dell'ovvio. Conta davvero ciò di cui non si parla. Lo diceva anche Gramsci».
Per anni collaboratore dell'Unione, scrisse sul giornale il suo primissimo racconto. Doveva essere un articolo in morte di Lussu, divenne altro. Da allora non ha più smesso, e la sua produzione letteraria si è coerentemente confusa con quella saggistica. Tra i fondatori del Festival di Gavoi, ha pubblicato racconti, romanzi, poesie, per Sellerio, Marsilio, Edes, Avagliano. L'esordio nel 1978 con la raccolta A fogu aintru/a fuoco dentro, poi L'oro di Fraus (pubblicato nell'88 da Editori Riuniti e riproposto dal Maestrale nel '95), pietra miliare della sua produzione, Una Ignota compagnia, Assandìra, Il sale sulla ferita, Doppio cielo, Il mare intorno, Alba dei giorni bui, Millant'anni, Le fiamme di Toledo, premio Mondello, e l'ultimo, Sulla faccia della terra, pubblicato nel 2015 da Feltrinelli-Il Maestrale. E la raccolta di poesie Tempus, Cuec. Di recente, l'Almanacco dei poeti (Raffaelli) ha dedicato ai suoi versi alcune delle pagine sarde, curate da Maria Cristina Biggio.
Professor Angioni, che cosa rappresenta per lei la scrittura letteraria?
«Sempre più una specie di cura, non saprei di quale cronica malattia, ma so che mi fa bene, mi riposa, mi eccita e mi attira. Per scrivere L'oro di Fraus ci ho messo almeno tre anni, forse sei. Del resto, io non smetto mai di lavorare ai miei romanzi finché non escono».
Che cosa le piace della dimensione del paese?
«Ti dà una sorta di onniscienza delle cose del luogo. È un sentimento bello, forte, che riscopro sempre ogni volta che torno a casa, dai miei molti fratelli».
Che cosa fa per farsi accettare dai compaesani?
«Parlo perfettamente il loro dialetto».
Che rapporto ha con la morte?
«Sono convinto che sono scrittore perché devo farci i conti. Parlo della mia morte, di quella degli altri, di quella dell'umanità. Che ci sarà, per quanto ne sappiamo».
Crede in Dio?
«Io ce l'ho con Dio perché non esiste».
Di che cosa ha paura?
«Della stupidità. Mi paralizza. Contro la stupidità anche gli dèi sono impotenti».
Maria Paola Masala