Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Sa die de sa Sardigna: simbolo di un popolo in cerca di riscatto

Fonte: La Nuova Sardegna
28 aprile 2009

MARTEDÌ, 28 APRILE 2009

Pagina 35 - Cultura e Spettacoli





Non si celebra solo la «cacciata» dei piemontesi, ma il cammino verso l’autonomia di tutti i sardi

ANTONI ARCA

Ogni celebrazione identitaria ha bisogno di tempo perché sia accettata e, più spesso, muore sul nascere invece di assestarsi, crescere e irrobustirsi. È per questo che ogni nuova celebrazione festiva parte sempre da un precedente ancestrale. Un ieri immemore che il tal documento rinvenuto nel cassetto del podestà riporta improvvisamente alla luce. Per cui la sagra del “saltafossi arancione” di Pisinamanna “rinasce” dopo anni di forzato oblio, e a nessuno verrà in mente di verificare se il documento sia un falso o addirittura non esista: basta che durante la giornata dell’identità nazionale di Pisinamanna siamo tutti più contenti e uniti, e il mito si farà da solo.
I promotori di Sa Die de sa Sardigna invece cercarono una data storicamente certa. Cioè una qualunque giornata eroica della storia sarda. Quindi, andando da Amsicora a Mariano IV d’Arborea, da Sigismondo Arquer a Giovanni Maria Angioy, la scelta cadde sul 28 aprile del 1794, giorno in cui i cagliaritani scacciarono, fisicamente, i governanti piemontesi dopo anni di evidente malcontento. Nessuna invenzione, ma l’invito rivolto a tutti i sardi di scoprire o riscoprire la propria storia reale attraverso la lettura di una documentazione certa. Ma i documenti riconducibili al triennio rivoluzionario sardo sono pubblici, sono tangibili, sono reali e quindi suscettibili di interpretazioni ideologiche. Per cui storici e non storici, negli anni, si sono divertiti a denigrare Sa Die. «I fatti interessaraono solo i cagliaritani»; «i piemontesi tornarono più forti di prima»; «per i pastori barbaricini non cambiava nulla»... Avessero inventato la scoperta dell’atto di nascita di un tale Cristofuru Culumbu compatibile con l’omonimo genovese e avessero proposto quella data come festa “de sos sardos”, oggi saremo lì a festeggiare, tutti insieme appassionatamente in qualità di “grandi sardi”: «i padri morali di tutti gli americani».
Invece no, non siamo moralmente padri di nessuno, se non di noi stessi. E una giornata vale l’altra, purché esista, purché sia la stessa per tutti. Da anni, per legge è il 28 di aprile, Sa Die de sa Sardigna, e che ognuno la festeggi come gli va. Alcune scuole, per esempio, non chiudono ma dedicano la giornata a riflettere sulla sardità, intesa come storia, come cultura, come economia, come lingua.
Alcune amministrazione locali organizzano convegni, dibattiti, concerti. Ugualmente fanno le più diverse associazioni culturali. Insomma, lo si voglia o meno, il 28 aprile è la giornata della Sardegna. Perché il 28? Ha poca importanza ormai, ognuno la celebri come può e come sa, ciò che conta è prendere coscienza e accettarsi per ciò che si è. Sardi verso il 3000 senza né Atlantide, né navi shardana, né bandiere alternative. Oppure anche con quella simbologia fantasiosa, se si vuole. Ma sardi di oggi, consapevoli di una realtà evidente: la Sardegna, intesa come regione italiana, sarà ancora diversa nella misura in cui resisterà la sua lingua alternativa all’italiano. Ogni altro elemento identitario è già stato ruminato all’interno del ventre della globalizzazione. Quindi il 28 pomeriggio ascolterò il consiglio dell’associazione spontanea “In sardu est mègius” e andrò ad ascoltare il coro Gabriel e Clara Farina alla libreria Messaggerie Sarde. Perché, dalle 18, canteranno e reciteranno solo opere in limba, ché in sardo è meglio.