Kobo Abe, scrittore giapponese, ebbe ragione quando nel 1967 scrisse che la città è «un infinito limitato. Un labirinto dove non ci si perde mai». Non solo perchè la sua Tokyo, città per noi labirintica in quanto senza indirizzi, è una quinta scenica di un investigatore che cerca Nemuro, un desaparecido, ma perchè in quella espressione concentra il senso dell'urbano. Comprese tutte le definizioni inventate, da Omero a Umberto Saba, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Aldo Rossi, passando per filosofi, poeti, politici, urbanisti, narratori. Ci sono espressioni più evocative di polis, civitas, urbs? Chi ne ha inventato di altrettanto potenti? Tutte le declinazioni da lì discendono. Quando Kobo Abe inventò la sua, non solo di Tokyo parlava ma anche di Cagliari di cui, probabilmente, non conosceva l'esistenza; di quelle visibili e invisibili, reali o immaginarie. Siamo a ridosso del '68 che vedrà le città protagoniste con i ragazzi di rivoluzioni che costruiranno geografie impensabili in cui compariranno le donne. Dove poteva accade la più grande rivoluzione pacifica della storia, se non nell'urbano in cui, malgrado il sangue dei femminicidi, siamo certe che non ci perderemo? Chi s'inurba, a tutta prima, prova smarrimento. Ecco perchè c'è bisogno di mappe e le città antiche le avevano. Erano governate da orientamenti, tutti nella dimensione del sacro, e gli stessi confini tracciavano orizzonti simbolici da non oltrepassare. Niente caos o disordine ma le ragioni della civitas. Oggi li chiamiamo piani urbanistici. Cagliari ne è sprovvista. Un tempo si parlava persino di piano regolatore dei tempi delle donne e dei bambini. Sarà il caso di rintrodurli nel linguaggio e nella praxis di chi amministra perchè non si perdano civitas ed urbs. Cagliari corre il rischio.
Maria Antonietta Mongiu