Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Scrivere, la mia epifania all'uscita dagli abissi della vita

Fonte: L'Unione Sarda
3 giugno 2016

PRESENTAZIONE. Bill Clegg parla del suo inferno, della risalita e del rapporto con la scrittura

 

 

 

È precipitato nell'inferno della dipendenza dall'alcol (ha iniziato a bere a 12 anni) e dalla droga. Per colpa del crack ha smarrito gli affetti, demolito il successo costruito con fatica. Ha però ritrovato la forza per risalire. Bill Clegg, agente letterario di successo, 45 anni, cresciuto a Sharon (Connecticut), bambino ossessionato dall'idea della morte («perché figlio di una famiglia difficile in cui erano frequenti le discussioni»), sedotto dal fascino di New York, ha aperto ieri il festival “Leggendo metropolitano”. Sotto il cielo solcato dai fenicotteri, in un tramonto venato di rosa, il mondo è sembrato piccolo ma rassicurante, rispetto a quello scintillante, labirinto di strade parallele e grattacieli, in cui Clegg ha conosciuto perdizione, dolore e solitudine. «Quand'ero piccolo e non c'erano i social network a soddisfare la fantasia, immaginavo New York come il Regno di Oz, una città incantata».
Intervistato da Marco Zurru, in un percorso tracciato attraverso le tappe della sua scrittura («che non è stata terapia, ma un'epifania che si è manifestata all'uscita del tunnel»), ha presentato al pubblico, senza finzione, con un realismo addolcito dal sorriso, com'è che gli è capitato di smarrirsi e quindi ritrovarsi. Noto per i due memoires, “Ritratto di un tossico da giovane” (Einaudi 2011) e “90 giorni” (Il Saggiatore 2013), ha presentato a Cagliari il suo primo romanzo. Intitolato “Mai avuto una famiglia” è uscito in Italia per Bompiani sei giorni fa. Negli Usa è considerato tra i più bei libri del 2015. La storia non è la sua, stavolta. Ha per protagonista una donna, June Reid, che ha percorso una via del dolore differente, lontano dalla metropoli, nel cuore della provincia americana. Perde sua figlia in un incendio, «diventa catatonica e desidera morire». «Scrivere delle tragedie altrui», ha sottolineato per spiegare il suo approdo alla fiction, «è molto diverso dal raccontare le proprie. In quest'ultimo caso hai un copione già scritto. Il processo creativo nel romanzo è stato differente, eccitante e febbrile. Ho cercato di calarmi in un dolore che quando ho iniziato a stendere il romanzo non conoscevo. Volevo capire cosa si provasse davanti alla perdita di un figlio o cosa sentisse un ragazzino di 14 anni davanti alla morte, poi mio padre si è ammalato e l'ho perso...». Sono solitudini diverse. Per consolare dal lutto serve la comunità, la parola di un amico, di un familiare. «Dalla droga, e questo per me resta un mistero, sono uscito con l'aiuto dei consimili».
Manuela Arca