Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Due numeri e due città per sentire un'appartenenza

Fonte: L'Unione Sarda
3 giugno 2016

Festival letterario L'architetto palestinese Suad Amiry oggi a Leggendo Metropolitano

 

 

 

A rchitetto palestinese, felicemente prestata alla scrittura, Suad Amiry, oggi ospite di Leggendo Metropolitano, parlerà di «spazi condivisi e resilienza». L'autrice di “Sharon e mia suocera” e “Damasco” ha scritto per l'Unione Sarda questa riflessione.
Come il fato, due numeri e due città, hanno guidato la mia vita. Due numeri e due città mi hanno insegnato come trovare la luce nell'oscurità, la risata nella tragedia, la vita nella morte, ma cosa più importante a uscire dall'inquadratura e guardare il mondo con ironia e humor.
DUE NUMERI 1948 e 420 sono stati i due numeri che mi hanno perseguitato: come fantasmi hanno gettato una pesante ombra sul mio cammino lasciandomi un profondo senso di sconfitta. 1948 era l'anno di “al Nakbah” (la catastrofe Palestinese). L'anno in cui i miei parenti, come onde, uno dopo l'altro, furono costretti a lasciare case, fattorie, villaggi, solo per diventare i nuovi “ebrei erranti” per il resto delle loro vite, e i miei genitori non erano da meno. Furono i pesanti combattimenti sopra le loro teste, gli orrori e le paure che alla fine li portarono ad abbandonare le loro deliziose case a Gerusalemme. Guardando le ondate di vita e le ondate di morte nel Mediterraneo di oggi, non posso che rivedere i miei genitori, i miei tre fratelli, i membri della mia famiglia e me stessa tra loro, e poi chiedere o urlare silenziosamente: «Chi tra noi non ha un padre, un nonno o uno zio o una zia che non troppo tempo fa è stato un rifugiato».
Se ripenso all'Europa del 1945, e all'America di oggi, capisco che abbiamo memoria corta, selettiva. In un mondo in cui uno su cento è rifugiato o sfollato, in un mondo con 232 milioni di lavoratori migranti, si può solo sperare di aver empatia.
420 è un numero ma anche un'ossessione, ereditata da mio padre. È il numero dei villaggi e paesi Palestinesi che Israele ha raso al suolo tra il 1948 e il 1952: distruggendo case, fattorie, sradicato i loro alberi così che non avessero niente a cui tornare. Ma l'unica cosa che non poteva essere cancellata era la memoria; che rimase con me e con tanti altri; scolpita nelle stesse pietre che giace ancora sotto le macerie dei 420 villaggi distrutti. E fu dalla più triste oscurità e distruzione che arrivò la luce e il bisogno di riscossa. E furono i 420 villaggi palestinesi che mi ispirarono a diventare un architetto della conservazione. Era la memoria della distruzione e un profondo senso di perdita che mi diede l'ispirazione a proteggere e far rivivere i resti dei 420 villaggi nella “Palestina Minore” (la Cisgiordania e Gaza). Da qui la nascita dei Riwaq e Ngo, fondati a Ramallah in Palestina nel 1991 (www.riwaq.org).
DUE CITTÀ È stata l'assenza della mia città paterna Giaffa che formò tutta la mia vita e mi diede un profondo senso di tristezza, di sconfitta e rabbia verso il mondo ingiusto al quale ci sforziamo di dare un senso ma invano. Tuttavia, fu la forte presenza della splendida città di mia madre, Damasco (come anche la forte presenza di mia madre) che mi diede il più profondo senso di sicurezza. Era l'attrito tra le montagne e il mare che formò la mia vita. Come le onde ho oscillato tra le montagne e il mare; tra la terra ferma dell'entroterra di Damasco e la turbolenza e gli inganni del mar Mediterraneo.
Era l'appartenere a una Palestina persa, a un “non-paese”, a una “non-nazione”, e la conseguente sfida di provare che esisti o che almeno eri esistita che alla fine mi diede il profondo senso di appartenenza, o di non appartenenza a un “non-paese”. Perché dove è casa, quando perdi la tua prima casa? È come la prima ferita che non si rimargina mai. Ma con la perdita della casa, ogni posto ha il potenziale per diventare “casa”.
Sono le città come Roma, Napoli e Cagliari che danno un forte senso di esistenza, di essere. Nascere e vivere a Damasco, la più antica città abitata al mondo sembra eterno. «Nessun'altra città potrà mai eguagliare Damasco». Questa era la frase che ho sentito sempre ripetere. Fu qui che mia madre mandò due figlie piccole (5 e 3 anni) durante la guerra nel 1948 quando le forze armate ebree di Hagan occuparono la nostra casa a Gerusalemme e la divisero con i miei genitori finché non furono costretti ad andarsene (i miei genitori, naturalmente). Fu a casa di mio nonno nella città vecchia di Damasco che mia madre mandò i miei due fratelli e me quando mio padre, attivista politico fu arrestato nel 1958.
È l'oasi verde di Damasco che è stata per secoli Paradiso e rifugio sicuro per molti di quelli che persero le loro case. Gli Armeni, i Circassi. I Palestinesi nel 1948. I libanesi nel 1975. Gli iracheni nel 1991. E guardati ora. Il mondo ti chiude le porte in faccia. Ma Damasco, non disperare.
Suad Amiry
(Traduzione di Francesca Pirisi)