Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Quelle “Orchidee” nate dal tormento

Fonte: L'Unione Sarda
8 aprile 2016


Un magistrale Delbono incanta e scuote la platea
Qualcuno lascia la sala ma è pioggia di applausi - Cedac: sino a domenica al Teatro Massimo di Cagliari

 

P ieno di musica e di dolore, lo spettacolo portato al Teatro Massimo di Cagliari da Pippo Delbono. È la sua (bellissima) voce fuori campo a parlare agli spettatori, a provocarli anche, a legare per quel che è possibile i quadri, potenti e lancinanti, di un racconto che ha molto di intimo e personale . “Orchidee”, in replica sino a domenica prossima per il cartellone Cedac, non è altro che un incontro tra esseri umani, dice l'autore. E non tra i più felici, essendo in gran parte dedicato alla morte di sua madre. Sembra nato dal tormento, questo lavoro, dal desiderio di scaricare sul palco un'amarezza che confina con la disperazione.
Pippo Delbono i suoi attori li sfinisce: li fa correre in tondo sempre più veloci, li denuda, li fa ballare sulla splendida colonna sonora di Enzo Avitabile. Gli interpreti - visi strampalati, fisici imperfetti- non recitano una parte ma la impersonano. Da citare uno per uno per la loro efficacia: Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò in sedia a rotelle, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella. Molto magri o molto grassi, muti o parlanti, le facce strane, mettono i loro corpi al servizio di una regia crudele e di alto livello tecnico. D'amore e di morte, specialmente di morte, si parla in “Orchidee”. A vedere Pippo Delbono avvicinarsi alle persone e sedersi sui gradini davanti alla platea si pensa: quest'uomo ha qualcosa da dirci. E da chiederci, data l'insostenibile crudezza delle immagini proiettate sullo schermo. Non tutte, perché c'è posto per i petali rosa di un giardino dei ciliegi, in un testo che attinge anche alla poesia francese e alla letteratura russa. Le luci di Robert Jonh Resteghini accompagnano con maestria una successione visiva di vuoti e di pieni, rappresentazione terapeutica del tentativo di accettare il distacco dalla figura materna. Ma quanto ha, questo figlio, da farsi perdonare ? E quale necessità lo spinge a danzare (con insospettabile leggerezza) , a muoversi sino allo stremo come volesse stordirsi, a urlare ? La risposta di Pippo Delbono è che non c'è niente da capire , e che il teatro è confuso come lo è la vita e i tempi che viviamo . Affermazione non condivisa da alcuni abbonati al Turno A , andati via anzitempo dalla sala . Le defezioni, riequi-librate dagli appalusi convinti di chi è rimasto , sono state facilitate da una pausa, pure allegra con una sfilata ben coreografata, che ha indotto a pensare che lo spettacolo fosse concluso. Invece no, Pippo Delbono e la sua compagnia, sono usi a finti finali. Poi si ricomincia , fino all'epilogo. Ed è qui il momento più duro , la visione della flebo che buca il vecchio braccio della moribonda . Neppure i teschi, le mummie, le cere anatomiche, un triste abbraccio gay apparsi nei momenti precedenti sortiscono lo stesso effetto . Forse non è necessario, simile realismo. Meglio la finzione, dello strazio autentico e documentato .
Alessandra Menesini