Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

La sociologa ieri a Cagliari per un incontro sul rapporto fra politiche economiche e crescente emarg

Fonte: La Nuova Sardegna
5 giugno 2015

L’INTERVISTA » CHIARA SARACENO


di Giacomo Mameli La denuncia è netta. Perché – dice Chiara Saraceno, uno dei grandi nomi della sociologia contemporanea – è «sempre più difficile in Italia e in altri Paesi affrontare il tema della povertà. Non sono in agenda i tabu (la questione meridionale), i conflitti di interesse (tra chi può vantare diritti acquisiti e chi non si è mai visto riconoscere diritti). Nell’incontro di oggi a Cagliari cercherò di segnalare possibili percorsi positivi. Partirò dal mio ultimo libro, edito da Feltrinelli: “Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi"». La parola forse più usata dal dizionario politico è austerity: ha la stessa valenza per chi frequenta Wall Street e chi è ospite fisso della Caritas? «Ovviamente no. Nell'uso che ne fa la politica economica austerità è diventata un termine fortemente asimmetrico: prescrizione che chi ha potere decisionale fa a chi non ne ha, che si tratti dei propri cittadini o dei Paesi “debitori”. Austerità si prescrive a carico di altri, senza preoccupazione per le conseguenze su questi altri. Non tutti si comportano nello stesso modo: in Irlanda le politiche di austerità seguite alla crisi sono state molto più attente agli aspetti redistributivi e di equità che non in Italia o in Grecia». A Rio de Janeiro il numero degli eliporti privati è più che duplicato, dai 310 del 2005 ai 722 del 2015. I ricchi si spostano in cielo per non essere contagiati dalle miserie della terra. «Anche senza spostarsi in aereo i grandi ricchi raramente incrociano non solo i grandi poveri, ma anche i ceti molto modesti, salvo che nella forma di un rapporto di servizio subordinato. Ciò avviene in modo molto accentuato nei Paesi e nelle città in cui esiste una forte segregazione abitativa, che protegge i ricchi dal contatto con la vita dei poveri». Cresce, in tutto il mondo, il numero dei sempre più ricchi a scapito dei sempre più poveri: perché? «Più che l'aumento del valore dei patrimoni, specie immobiliari, come suggerisce Picketty, secondo qualcuno (si veda il libro “Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?” di Franzini, Granaglia e Reitano) è molto aumentato il potere di chi detiene alcune posizioni sociali di definire il proprio reddito da lavoro a prescindere dal proprio valore aggiunto. Per rimanere all'Italia, negli anni '50 l'amministratore delegato della Fiat, Valletta, guadagnava 25 volte di più di un operaio, oggi, nella stessa posizione, Marchionne guadagna 350 volte di più, senza che la posizione della Fiat sul mercato dell'auto sia migliorata, al contrario. Ciò vale anche per i grandi manager dello Stato». Lei ha scritto che «occorre rompere i circoli viziosi della emarginazione». Si riferiva ai «francesi di origine maghrebina e religione mussulmana». «Nell'attacco ai giornalisti di Charlie Hebdo e al successivo rifiuto da parte di molti studenti delle banlieu di aderire al minuto di silenzio, mi riferivo al fatto che troppi cittadini francesi di origine maghrebina e religione mussulmana sono di fatto trattati di serie B o C. Abitano in quartieri periferici poco serviti e ghettizzanti, vanno a scuole diverse, hanno meno chances sul mercato del lavoro, in nome della laicità i loro simboli religiosi possono essere dileggiati o proibiti, senza reciprocità. Se si costruiscono ghetti e si giudica in base a stereotipi non ci si può stupire che qualcuno si ribelli violentemente». La politica – anche quella logorroica italiana – non parla di povertà da almeno tre lustri, è parola che scatena l'orticaria. Perché a farlo è rimasto solo – o quasi – il papa? «Non è vero che è rimasto solo il papa. Siamo in tanti a farlo, da anni, individui e associazioni, anche quando la massima gerarchia cattolica lo trattava come tema marginale, che dava meno scandalo dell'aborto, di divorzio o omosessualità. Con questo papa anche la gerarchia cattolica ha ricominciato a mettere la povertà al centro delle proprie preoccupazioni, dando conforto a chi, nella Chiesa finora si era sentito isolato di fronte a parroci o vescovi che talvolta consideravano la povertà un degrado da togliere dalla vista. I politici trovano la povertà un tema disturbante, di difficile gestione. Anche i sindacati hanno difficoltà simili, perché la loro “costituency” non è fatta innanzitutto di poveri. Il fatto che la povertà sia particolarmente concentrata nel Mezzogiorno non aiuta nel clima politico attuale. Occorrerebbe lungimiranza per mettere a punto strategie per combattere la povertà». La tecnologia rischia o no di accentuare il “divide” fra classi sociali? Come sono cambiati i numeri da quando lei – nei primi anni 2000 – si occupò di povertà per il governo? «La povertà assoluta è triplicata dal 2007 ad oggi, arrivando a coinvolgere oltre sei milioni di persone, molte dei quali minori. Uno degli aspetti specifici della povertà italiana è la forte sovrarappresentazione dei minori. Anche in Italia è un fenomeno eminentemente familiare e riguarda soprattutto le famiglie numerose, con tre o più figli. In molti casi in queste famiglie c’è un solo lavoratore. Quanto al “digital divide”, esso rischia, non solo in Italia, di diventare uno dei fattori di disuguaglianza sociale: esclude dall'accesso a modi di comunicazione e di lavoro che richiedono un minimo di competenze in questo campo. Ne è un esempio quanto sta succedendo con la Garanzia giovani. I meno qualificati tra i cosiddetti Neet spesso non sanno neppure che esiste questo strumento. E non hanno gli strumenti per accedervi». I divari nelle competenze accentueranno le distanze fra ricchi e poveri? «Crescono anche i divari tra Paesi che investono in conoscenza e ricerca quelli, come l'Italia, che non lo fanno. Se l'Italia fa fatica ad uscire dalla crisi è anche perché le imprese hanno pensato di poter stare sul mercato e competere solo con una politica di bassi salari e di flessibilità dei contratti, senza investire in innovazione e capitale umano». Se l'Europa fosse davvero un unico Stato lei dovesse diventarne ministro, da che cosa partirebbe? «A differenza di molti che fanno i politici, o che da tecnici entrano in politica, non ho una ricetta in tasca che aspetta solo di essere messa in atto. Porrei il problema di quali debbano essere le priorità della Ue al di là dei bilanci in ordine. Una unione politica e monetaria che distrugge le basi stesse di sopravvivenza della popolazione, dell'economia, della tenuta sociale i uno dei propri paesi membri – è il caso della Grecia – non è quella che avevano in mente i padri fondatori».