Festival di Filosofia Al Massimo di Cagliari dialogo con Lorini sulla legge inconoscibile
C hissà oggi in Italia come verrebbe fuori “La Certosa di Parma” dalla penna di Stendhal, con l'abbuffata di leggi, prescrizioni e riforme che si intrecciano, si incontrano e si contraddicono, tanto che negli anni ruggenti della delega alla Semplificazione Roberto Calderoli si faceva riprendere con la fiamma ossidrica mentre bruciava norme a pacchi interi, e intanto i suoi compagni di maggioranza ne sfornavano sempre di nuove e sempre più ad personam.
Verrebbe ben diversa da come venne, certamente. Ben diversa dal capolavoro che Stendhal compose - come scrisse lui stesso in una lettera a Balzac - previa lettura quotidiana di un paio di pagine del Codice civile per trovare il tono giusto e l'opportuna naturalezza, “senza catturare con artifici l'anima del lettore”.
Altri tempi, altri luoghi, altre tecniche legislative.
Ieri mattina Stefano Rodotà ha portato - insieme all'aneddoto stendhaliano - il punto di vista del giurista al festival di Filosofia del teatro Massimo di Cagliari.
Lo ha fatto conversando col docente di filosofia del diritto Giuseppe Lorini: un lungo dialogo sulla parola del diritto sottratta alla comprensione del cittadino comune - lo scettro tolto di mano al popolo sovrano - per consegnarla a un ceto di tecnici della norma.
Tema di grande pregnanza filosofica, questo del logos espropriato, e attualissimo ma non per questo nuovo. Fra Otto e Novecento, ad esempio, il diritto civile britannico e segnatamente la normativa sui beni immobili erano di una complessità tale da spaventare Max Weber, che pure strumenti per decodificare un corpus giuridico ne aveva più della stragrande maggioranza degli altri europei. Figurarsi quanto poteva paralizzare i proprietari terrieri sudditi del trono di San Giacomo, che infatti delegavano gli aspetti salienti della loro attività ai solicitor . E siccome anche i consulenti legali dei latifondisti avevano paura di mettere il piede in fallo in quel ginepraio normativo, non andarono mai oltre la più che ordinaria amministrazione, col risultato che l'agricoltura britannica attraversò un momento di stagnazione desolante.
Naturalmente non solo dell'armoniosa legislazione napoleonica si è parlato al Massimo, né dei problemi agricoli d'Oltremanica. Il divorzio fra norma e conoscenza - che pure il nostro sistema penale rifiuta come scusante per chi commette un reato non conoscendolo come tale - ha ceduto il passo ad escursioni nell'attualità. Solo sull'Italicum Rodotà «si è avvalso della facoltà di non rispondere», memore degli imbarazzanti rimbrotti di Renzi e Boschi ai “professoroni” perplessi dalla (forse) imminente riforma elettorale.
Ma non si è rifiutato di denunciare «l'imbroglio politico» di chi sventola la lex Mercatoria e si appella alle consuetudini del commercio per tacere che gli interessi di tre, quattro soggetti forti determinano e distorcono l'universo non solo economico in cui si muove il cittadino.
E che cosa c'è di più attuale - e pure di squisito interesse giuridico - delle furbizie vestite da obiezioni di coscienza, della disciplina e dell'onore che la Costituzione prescrive ai cittadini che hanno funzioni pubbliche, dei benintenzionati errori di chi vieta per legge il negazionismo, con ciò facendo dei negazionisti dei martiri, limitando la libertà di ricerca e per di più fallendo l'obiettivo di tutelare la verità storica?
Che cosa c'è di più attuale dello stridore fra la Costituzione, che all'articolo 36 prevede per il lavoratore una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”, e i nove milioni di italiani che vivono in condizioni di povertà relativa, e i cinque milioni che conoscono la povertà assoluta?
Probabilmente nulla, per chi ama il diritto e la giustizia.
Celestino Tabasso