Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Da George Gershwin a Bob Minzter Al Comunale la bacchetta di Levi

Fonte: La Nuova Sardegna
18 marzo 2014


 


di Gabriele Balloi

CAGLIARI «Perché volete diventare un Ravel di seconda mano, quando siete già un Gershwin di prim’ordine?». Così il compositore francese rispose alla richiesta, del giovane collega americano, di ricevere da lui lezioni d’orchestrazione. In effetti, un certo complesso d’inferiorità tormentò a lungo George Gershwin, con l’eterna preoccupazione d’essere riconosciuto, non meno degli altri, autore di musica “colta”. E a lui, dopotutto, si deve l’autentica, piena contaminazione col jazz e altri generi più popolari, considerati doppiamente “leggeri” in quanto provenienti dall’America. La sua apprensione, dunque, non era del tutto infondata ma poggiava su un forte pregiudizio dell’epoca. L’Europa rimaneva quasi un modello imprescindibile. Per questo nel 1928 soggiornò a Parigi, dove conobbe Ravel e compose «An American in Paris». Interprete congeniale a questo repertorio si riconfermava giorni fa David Levi, ospite del Lirico. E tanto «An American in Paris» quanto la «Cuban Overture», hanno rivelato un’orchestra più che mai versatile, capace di assecondare tutta la deflagrazione coloristica delle partiture gershwiniane, senza mai perdere per questo nitidezza e precisione d’insieme.Il direttore newyorkese, difatti, pare eludere piuttosto bene ogni eccessivo clangore, mantenendo, anche nei passaggi volutamente più caotici e in “fortissimo”, una limpidità strumentale quasi patinata. In gran forma poi la sezione dei fiati; su tutti ovviamente le nutrite file degli ottoni, di presenza oltremodo smagliante. Ma a farla da padrone, è il dispiegamento nell’organico di 8 validi percussionisti – Filippo Gianfriddo, Pierpaolo Strinna, Emiliano Rossi, Davide Mafezzoni, Emanuele Murroni, Matteo Modolo, Francesca Ravazzolo e Mattia Pia – protagonisti indiscussi nel dare l’indispensabile intelaiatura ritmica e timbrica a queste pagine. A passare in primo piano sono, invece, i componenti del Signum Saxophone Quartet con «Rhythm of the Americas» di Bob Mintzer, erede naturale del sinfonismo jazzistico alla Gershwin. Quattro movimenti in cui confluiscono linguaggi musicali non solo degli “States”, ma di tutto il continente americano col suo “melting pot” di culture. I Signum, bravissimi nel fraseggiare questo lessico eterogeneo, hanno nel sangue il talento di gestirne la capricciosità agogica, i bruschi cambiamenti di dinamica, le intermittenze rapsodiche. Eccezionale poi il virtuosismo del bis, con le acrobatiche variazioni sulla «Pequeña Czarda». Unico neo del concerto l’«Adagio per archi» di Barber, forse non molto nelle corde di Levi, che stacca un tempo quasi “Andante” e soprattutto esalta troppo poco il registro più grave degli archi.