Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Il potere dell'arte o l'arte del potere?

Fonte: L'Unione Sarda
28 febbraio 2014

 

Massimo De Francovich e Luca Zingaretti,
“un corpo a corpo” di intensa e solida bravura - La pièce sino a domenica al Teatro Massimo di Cagliari

 

F orse mai come in questo periodo prosa e musica classica si sono intrecciati sui palcoscenici italiani con tanta frequenza: Remo Girone voce narrante in “Carlos Kleiber il titano insicuro”; Sonia Bergamasco interprete dello spettacolo-concerto sulla vita di Clara Schumann “Pochi avvenimenti, felicità assoluta”. E Luca Zingaretti e Massimo De Francovich protagonisti della commedia “La torre d'avorio” di Ronald Harwood, in programma fino a domenica al Teatro Massimo di Cagliari per la stagione Cedac.
Il testo del drammaturgo inglese debuttò a Londra nella metà degli anni Novanta col titolo di “Taking sides” e la regia di Pinter. Qualche anno dopo, diventò un film dal titolo “A torto o a ragione”, diretto da Istvan Szabò e con Harvey Keitel.
Al centro del racconto, c'è il rapporto tra arte e potere, l'autonomia della prima dal secondo. Indagine che prende spunto dalla vicenda umana del sommo direttore d'orchestra Wilhelm Furtwangler che, alla fine della guerra, finì risucchiato dal processo di denazificazione messo in piedi dagli alleati, desiderosi di esibire trofei, meglio se noti come in questo caso. La star del podio non lasciò mai la Germania, e per questo fu accusato di simpatie hitleriane.
In una scena sobria occupata da due scrivanie e qualche sedia, si fronteggiano i protagonisti della vicenda, entrambi dalla forte personalità: Furtwangler, impersonato da Massimo De Francovich, e il maggiore dell'esercito americano Steve Arnold incaricato dell'istruttoria, interpretato da Luca Zingaretti, che trasforma il proprio personaggio in una sorta di Montalbano d'oltreoceano, dai modi altrettanto rudi, spicci e aggressivi. Un ufficiale abituato a convivere con il sospetto (da civile controllava le denunce in un “assicurazione”), e che detesta la musica classica, simbolo di un mondo distante, di cui non consoce praticamente niente, salvo il nome di Arturo Toscanini (mentre invece ignora chi sia colui che di frequente interroga). Uno al quale la Quinta Sinfonia di Beethoven fa «cagare dalla noia», e con tono sprezzante chiama Furtwangler, «maestro di banda». Per lui, i meriti artistici del grande direttore, venerato come un dio dai melomani - compreso un giovane tenente di origini ebree musica classica dopo aver ascoltato un suo concerto, e una segretaria il cui padre, colonnello tedesco, partecipò al fallito complotto contro Hitler - in quella stanza, trasformata in un ring dove si consumano accesi “corpo a corpo” verbali e si scontrano due opposti modi di pensare e agire (per Furtwangler l'arte era il bene supremo, capace di riscattare l'uomo davanti all'orrore del nazismo), non hanno alcun valore, alcun peso. Anche le prove che dimostrano come egli abbia sottratto tanti ebrei, musicisti e gente comune, alla furia sterminatrice del Reich, vengono ignorate, spazzate via dal desiderio ossessivo e rabbioso di Arnold, di inchiodare a tutti i costi l'accusato, magari ricorrendo in maniera infima a documenti di dubbia natura. Alla fine, però, nulla viene provato. Uscire dalla torre d'avorio e schierarsi, è un passo che solo la coscienza permette di fare. Sala piena e lunghi applausi.
Carlo Argiolas