Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Al capezzale del San Giovanni

Fonte: L'Unione Sarda
22 gennaio 2014

22 gennaio 2014
 

Visita fra i corridoi semideserti dell'ospedale civile costruito da Gaetano Cima
che si appresta a chiudere i battenti con il trasferimento degli ultimi reparti -

 

La fine è vicina, per la rinascita bisognerà attendere. Il popolo del San Giovanni di Dio solleva le spalle e invoca la speranza. «Il futuro? Non so, si sono dette tante cose. Per esempio si parla di un grande poliambulatorio. Sappiamo soltanto che qui è cominciato lo smantellamento». Parole, frasi ridondanti. È il leitmotiv che accompagna la «disfatta stampacina», come sono stati ribattezzati la serrata del Civile, il grande cambiamento cui la città assiste e in qualche caso sopporta, affidandosi a giudizi contrastanti.
IL VIAGGIO Una mattina di un giorno qualunque. Scende una pioggia sottile e fastidiosa sulla città vecchia, e bagna l'ospedale cagliaritano disegnato dal Cima. Lungo la salita che da piazza Yenne s'arrampica verso quello che un tempo fu il vero polo della sanità di Cagliari, sembra anche più facile trovar parcheggio. Restano in attesa di pazienti e parenti di ricoverati anche i senegalesi, gli uomini dei parcheggi che raccontano di «affari in picchiata». Oltre il portone, lungo l'androne affacciato sull'antico e ombroso giardino pensile, s'avverte subito che qualcosa è davvero cambiato dopo l'avviato trasferimento verso il Policlinico di Monserrato. Una sensazione di vuoto che si tocca con mano anche in strada. In quel triangolo di vita racchiuso tra via Santa Margherita, via Ospedale, via Porcell.
LA SERRATA Chiusa la clinica Aresu, mentre la pediatrica Macciotta ha i giorni contati e una data: il 29 gennaio, quando anche i reparti di Neuropsichiatria infantile e Padiatria affronteranno il viaggio di sola andata verso il Microcitemico. Sono queste ad aver tracciato la strada e il San Giovanni ha già rinunciato a Ostetricia e Ginecologia. Prossimo passo, Cardiologia e Otorinolaringoiatria, che occuperanno parte dei blocchi N e G del Policlinico. I piani alti sono stati di fatto svuotati, mentre al primo resistono le due Medicine, l'istituto di Anestesia e rianimazione con l'Unità di terapia intensiva. Al piano terra, Radiologia e Radiodiagnostica e Oculistica.
Massimo Chiaberge va avanti e indietro nell'androne che si affaccia sull'antico giardino pensile e aspetta di entrare in reparto per visitare un parente ricoverato. «Visto che sono di questa zona la chiusura del San Giovanni un po' mi rattrista, ma basta guardarsi intorno per capire che forse la scelta di trasferire tutto al Policlinico, in un complesso nuovo e funzionale, è quella più giusta». Parla lo sguardo. «Spifferi dappertutto, correnti d'aria e il riscaldamento che non fa il suo dovere. Non può. Uno sperpero di denaro pubblico, eppure questa è una struttura bellissima. È una fetta di Cagliari e, trasferimento a parte, non dovrà restare chiusa, non potrà diventare un'incompiuta in attesa di nuova destinazione e tempi migliori». Timori legittimi, visto che la città è sin troppo abituata a fare i conti con caseggiati perennemente consacrati ad essere soltanto ex monumenti .
LA RABBIA «Meglio Monserrato». Dubbi nessuno, neppure un attimo di esitazione. Giampiero Murru chiude il giornale e ammette. «Per me, ma è un'opinione personalissima dettata da altrettanti bisogni personali, sarebbe molto più comodo e agevole raggiungere il Policlinico visto che arrivo da Tortolì. Non so, forse la chiusura di questo ospedale preoccupa di più chi a Cagliari vive». E infatti Salvatore La Barbera di Sarroch la struttura di Monserrato la difende a oltranza. «L'ho vista, l'ho utilizzata, ne sono compiaciuto», dice senza tentennamenti. Ma è qui, nel corridoio del piano terra, fuori da Oculistica, ad attendere il suo turno per una visita. «Mi ha operato un medico bravissimo di questo reparto, mi sono affidato alla sua professionalità e non ci rinuncio di certo».
Giudizi, idee diverse. Inevitabilmente. Lungo gli androni che un tempo brulicavano di persone c'è un silenzio quasi irreale. Così è anche davanti all'ufficio ticket. Seggioline vuote, una sola persona attende di poter entrare nella stanza. Questione di minuti, di un solo attimo. Meglio aspettare per chidergli un commento sul de profundis del San Giovanni di Dio. «Il trasferimento? Una follia. Guardi, è soltanto una questione politica e non dico altro». Il nome? «Antonio, solo Antonio. Se vuole le racconto ma non mi chieda il nome. A casa non sanno nulla dei miei controlli medici e non voglio che lo sappiano dal giornale. Dicevamo? Ah già, Cagliari diventa povera, molto povera senza questo ospedale. E non ci dicano che questo è un nosocomio fatiscente. Lo è? Lo sistemino, ma lascino a Cagliari il diritto di curarsi senza trasferte. Come accade nelle grandi città, in Italia, in Europa». Come a Roma, Torino.
L'ATTESA Vincenzo Olla è un uomo solo nella sala d'aspetto di Medicina. Lui e il quotidiano La Repubblica aperto sulla panchina. «Non ho la macchina, vengo qui esattamente come vado al Policlinico. Devo dire che per raggiungere la struttura di Monserrato non ho mai trovato difficoltà. Tutt'altro», spiega.
Sarà l'affetto, sarà l'aria che si respira tra questi corridoi che sanno di storia, ma non sono pochi i cagliaritani che vorrebbero salvarlo, questo monumento inventato dall'architetto Gaetano Cima sulle spoglie del medievale Sant'Antonio di Vienne. Tutelato, protetto, classificato come monumento storico di pregio, racconta però la sua lunga esistenza. Una vita stanca che le terapie-palliativo messe in campo in anni e anni per tappare i buchi sconci del degrado (una pioggia di denaro) non sono mai state in grado di restituirlo a miglior vita. E le ferite sono ancora aperte, al San Giovanni di Dio. Dentro le mura, lungo i reparti. Lungo quel sentiero d'asfalto che corre in discesa lasciandosi dietro il Pronto soccorso, la sala mortuaria e il servizio di farmacia. E ancora più giù, verso Diabetologia e la vecchia villetta della scuola infermieri con le onduline in cemento-amianto. Fino alla clinica Otorino che si affaccia su Stampace, la Marina. Il mare.
Andrea Piras