Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Sant'Elia, l'appello di Cellino

Fonte: L'Unione Sarda
26 settembre 2013


Il presidente carica anche la squadra: «È molto forte ma deve liberarsi la testa»
 

«Basta ritardi e manfrine, riapriamo lo stadio ai tifosi»
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di Massimo Crivelli
 

Barba lunga, volto teso, sorriso stentato. In partenza per Livorno Massimo Cellino è preoccupato. Ma non per le sorti della partita. Il suo cruccio, lo stesso da diciotto lunghi, interminabili mesi, è la questione stadio. Non lo dice apertamente ma inizia a pensare d'essere diventato il protagonista di uno quei filmetti horror di serie B nei quali l'incubo ricomincia puntualmente quando l'happy end appare a portata di mano. Nonostante tutto, conserva il gusto per l'ironia: «Un amico mi ha detto che per me, al Monopoli, hanno inventato un nuovo cartellino degli Imprevisti: “Ritorna al via passando dalla prigione”. Ha ragione, è proprio quello che sta accadendo».
Presidente, siamo davvero al punto di partenza?
«Spero di no ma temo di sì. Dovevamo essere pronti per la Sampdoria e tutto si è fermato per la visita del Papa. Si puntava sulla gara con l'Inter e invece niente da fare. Vedo in giro troppa calma, gente flemmatica, sento ripetere come un mantra che le cose vanno fatte per bene. E mi vengono i capelli dritti».
Si spieghi meglio.
«Non vorrei che il mio silenzio di questi ultimi tempi fosse stato male interpretato. Io non ho nulla da nascondere, non ho la coda di paglia. Nel maggio scorso ho dato retta al mio consiglio d'amministrazione e agli avvocati che mi dicevano di lasciar perdere Is Arenas, che lì la situazione era impraticabile, di tornare al Sant'Elia per il bene della squadra. Ho fatto tre mesi agli arresti, mi sono cosparso il capo di cenere, ho speso un'altra valanga di soldi. E per che cosa?».
Non sia così negativo, in fondo i lavori procedono. Lentamente ma vanno avanti...
«Senta, siamo in ritardo. Un po' per colpa dei miei operai, molto per quelli del Comune che collaborano, non posso negarlo, ma con tanti limiti oggettivi. Da domani mi metterò personalmente a seguire il cantiere, invierò anche un telegramma al Comune perché non voglio essere accusato di minacce com'era accaduto per Gessa a Quartu. Però la faccia ce la metto sempre e solo io. Lo stadio resta chiuso e la colpa non è mai di nessuno. Perché?».
Me lo dica lei...
«Perché dopo la vicenda di Is Arenas sono tutti terrorizzati, ci vanno con i piedi di piombo. E la paura di sbagliare diventa l'alibi perfetto. Perciò vorrei ricordare, soprattutto a chi tira fuori le pinnicche in commissione di vigilanza, che la procedura corretta da seguire per il Sant'Elia è quella per uno stadio vecchio, cioè la deroga, come avviene ormai per la stragrande maggioranza degli impianti italiani».
Sente puzza di bruciato?
«No, ma alle volte sembra che questa squadra sia diventata un peso per la città. C'è un atteggiamento di fondo negativo e inspiegabile. Non voglio fare il martire ma ricordo che per cercare di dare una casa al Cagliari ho pagato pesantemente a livello personale. A Miami mi chiedevano perché e non sapevo dare una risposta. D'altronde gli americani non sanno neppure cosa sia il tentato peculato. Ma lasciamo perdere le cose giudiziarie. La verità è che a volte ho vergogna di presentarmi dai miei giocatori, non so più cosa dir loro sullo stadio. Per non parlare dei tifosi, i primi ad essere danneggiati».
A proposito di danni: quanto le è costata, finora, questa telenovela?
«Undici milioni per Is Arenas, più un altro per lo smontaggio delle tribune. A Sant'Elia ho già speso un altro milione e mezzo. Se calcoliamo i mancati incassi e le maggiori spese arriviamo a circa trenta milioni. E la sa una cosa buffa? Se la società fallisce la legge prevede che a gestire il titolo sportivo sia il sindaco. Sì, ma quale: quello di Elmas? O di Quartu? O di Cagliari?».
Oggi lei vede tutto nero...
«Sì, è vero. Però guardi, è un momento duro. Non a caso il Papa è venuto qui per confortare un popolo che è sottoterra. Ecco, mi consolo pensando che per i sardi ci sono problemi ben più gravi dello stadio».
Glielo ho già chiesto in un'altra intervista, lasci perdere la religione, parliamo di calcio.
«Allora le confesso che io non sono pessimista. Anzi, le dico che credo più io in questa squadra dei miei giocatori. È una formazione molto forte, che può puntare in alto. Sono i giocatori che devono avere maggiore autostima, devono liberarsi la testa».
Una parola di speranza anche sullo stadio.
«Faccio un appello alla ragionevolezza. Rimbocchiamoci tutti le maniche. Se il problema sono io che sono arrogante e antipatico, lo si faccia per il Cagliari che rappresenta tutta la Sardegna. Siamo ancora in tempo per aprire il Sant'Elia il 19 ottobre per la partita con il Catania e con la capienza di 16 mila posti. Dimostriamo che non siamo solo sardi invidiosi e piagnoni».