Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Tartit, dai campi profughi suoni e voci del mondo

Fonte: L'Unione Sarda
20 settembre 2013

Stasera al Lazzaretto di Cagliari il gruppo ambasciatore di un'antica cultura

 

«Parliamo di pace e amore, ma anche di ribellione»


 

In Mali soffia il vero spirito dell'Africa occidentale. A questa terra, e più precisamente, alla regione di Tinbouctou, appartengono i Tartit che, nella lingua tamasheq, vuol dire unione. Formati da cinque donne e quattro uomini, da anni sono tra gli ambasciatori nel mondo della cultura Tuareg. Questa sera approdano per la prima volta in Sardegna in occasione di un appuntamento allestito dall'associazione Azalai di Claudia Zuncheddu, in programma alle 21 a Cagliari al Lazzaretto. Musica, ma non solo. Nei locali del centro culturale che si affaccia sul mare, sarà possibile visitare la mostra etnografica “Africana: Magie Culture Colori”, curata sempre da Azalai.
«Il gruppo è nato nel '95. Eravamo in campi profughi differenti e abbiamo pensato che unendoci saremmo stati più forti», ricorda Fadimata Walett Oumar, cantante e leader dell'ensemble, mentre guarda il canale televisivo France 24 che in diretta trasmette l'elezione del nuovo presidente del Mali, Boubacar Keita. «Tiene molto all'unità. Mi auguro che dedichi la stessa attenzione a tutte le zone del Paese. Spero che realizzi cose importanti anche per il nord e per noi tuareg», dice.
Cosa faceva prima di cantare?
«Ero una sorta di portavoce delle donne dei campi profughi. Aiutavo chi aveva bisogno e lo faccio ancora adesso. Lo scorso anno c'è stata una rivolta, a seguito della quale i fondamentalisti hanno reso difficile la vita alle donne in tanti modi: l'imposizione del velo, il divieto di fare musica. Cose per noi impensabili».
Siete reduci da un tour negli Stati Uniti e da un concerto a New York che ha riscosso molto successo.
«È andata bene. La nostra musica piace in tutto il mondo. Purtroppo qui a Cagliari non saremo al completo. Alcuni di noi vivono in Mauritania e a due donne e due uomini non è stato concesso il visto».
Di cosa parlano le vostre canzoni?
«Parlano di pace, amore, ricordi, identità, nostalgia, ma anche di ribellione e della nostra condizione politica».
E i suoni delle vostre musiche a cosa rimandano?
«Ai diversi momenti della giornata, ai rumori della natura, a quelli delle carovane. Abbiamo ereditato un patrimonio sonoro antichissimo. Utilizziamo strumenti tradizionali come l'imzad, simile al violino, e il tindè, piccolo tamburo cilindrico costruito con il mortaio di legno e il pestello con cui si macina il miglio».
Che spazio hanno le chitarre elettriche nel vostro sound?
«Le utilizziamo per arricchire la gamma di suoni tradizionali. Gruppi come i Tinariwen ne fanno un uso marcato, molto rock, noi le impieghiamo in maniera discreta, proprio perché siamo più ancorati alle radici. Con la loro musica i Tinariwen sono riusciti ad attirare l'attenzione sulla condizione del popolo del Mali, nonostante le canzoni siano nate fuori dalla nostra terra».
Carlo Argiolas