Rassegna Stampa

Sardegna Quotidiano

QUEI SOLITI BECCHINI DELLA LINGUA SARDA

Fonte: Sardegna Quotidiano
4 luglio 2013

 

di Alberto Testa

Morta a lingua, mortu u populu” dicono gli indipendentisti corsi. E finora, lasciato il tritolo e imboccata la strada parlamentare, si sono salvati dalla colonizzazione francese, almeno da quella linguistica. Da noi prospera una pianta transalpina, la mauvaise herbe, coltivata dai becchini della lingua sarda. Chiamiamola zizzania per capirci, spuntata pochi giorni fa sui banchi del Consiglio comunale di Cagliari. Dove un manipolo di provocatori, pensa te, ha osato proporre come materia per i concorsi pubblici la conoscenza della lingua sarda. Apriti cielo: qualcuno è rimasto perplesso, un altro pure, un altro ancora ha parlato addirittura di “norma discriminatoria” e il più faceto ha riesumato il vecchio caro “gazzosone ”, giusto per liquidare una questione che di bollicine ne dovrebbe fare tante. Anche troppe, ma per sommergere i vuoti di memoria (o di conoscenza?) di chi dovrebbe rappresentarci in tanto consesso. Proprio su quegli scranni dove sedevano uomini di cultura come Umberto Cardia (fautore del bilinguismo da sempre) e Paolo De Magistris, che amava intercalare l’italiano con la lingua materna, dando spazio a battute molto salaci. Pensate che Cardia e don Paolo avrebbero contrastato l’iniziativa di quei consiglieri trattati oggi da vetero-sardisti in naftalina? Credo proprio di no. E magari si sarebbero documentati prima di stappare la bibita più amata da via Roma in su. Avrebbero consultato gli atti del governo D’Alema, che quattordici anni fa consegnò ai sardi il bilinguismo perfetto. Una conquista non ancora utilizzata a pieno e di cui avremo modo di occuparci più diffusamente. Quella legge del 1999, tanto reclamata dai movimenti nazionalitari, consente ai Comuni l’uso del sardo in tutti gli atti amministrativi, nei dibattiti in aula, nei rapporti con il pubblico. Di più: nel 2006 la Regione ha creato e finanziato gli “sportelli linguistici” in quasi tutti i Comuni, giusto per favorire la formazione di personale bilingue e aprire appunto sportelli dove si parla il sardo e l’italiano. Per non essere assaliti dalle perplessità o dalla nuvoletta gassata, basterebbe chiedere a qualche consigliere comunale tirolese o valdostano, come funzionano le cose da loro, che come noi sardi godono di un’autonomia speciale. A Bolzano e dintorni chi aspira a un impiego in Comune deve conoscere l’italiano, il tedesco-tirolese e il ladino. Idem come sopra ad Aosta, dove per i concorsi è d’obbligo anche la conoscenza del francese e del patois franco-provenzale. Stessa musica nelle scuole e nei tribunali così come nelle caserme dei carabinieri. Ma c’è sempre un ma, pronunciato dagli inguaribili “italioti” nostrani, come li definiva lo scrittore bilingue Francesco Masala (tradotto, guarda il caso, persino in Russia, Francia ed ex-Jugoslavia). I becchini della limba hanno sempre la solita carta da giocare: usare il sardo va bene, ma quale sardo? Questo il dilemma. Campidanese, logudorese, sassarese o nuorese? Gli studiosi chiamati a rapporto da mamma Regione hanno già dato la risposta per una lingua unificata, tutt’altro che soddisfacente. Un papocchio indigeribile. Diciamo però che nella querelle al Comune di Cagliari il discorso sulle varianti linguistiche c’entra come i cavoli a merenda. Chi scrive ha avuto la fortuna, come il 64 per cento dei sardofoni, di avere un padre cagliaritano e una mamma serramannese, tutti e due perfettamente bilingui. Certo, conoscendo il sardo-campidanese si avrebbe una carta in più per aspirare a un posto a Palazzo Bacaredda. Ma per i sassaresi, i nuoresi o i logudoresi si creerebbe la stessa situazione di privilegio nei rispettivi Comuni e finalmente ognuno lavorerebbe a casa sua (in domu propria) con una sorta di proporzionale etnica. Già attuata da molti anni nell’assegnazione degli impieghi nella Provincia autonoma di Bolzano. E non mi vengano a dire che questo è un argomento di bassa Lega.