Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Mio padre sul letto di morte mi promosse tenente Camilleri

Fonte: L'Unione Sarda
13 maggio 2013


Da Svevo a una pagina autobiografica, un viaggio nel rapporto fra generazioni
 

Ieri la lezione magistrale cagliaritana del romanziere
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Sarà bizzarra, questa abitudine di rendere dottore honoris causa un uomo per continuare a chiamarlo maestro, ma ha degli aspetti interessanti, belli, umani.
Uno è la ressa che c'era ieri nell'aula magna del rettorato cagliaritano per la lectio di Andrea Camilleri, con il garbato servizio di accoglienza costretto a trasformarsi in teutonico servizio d'ordine («Niente invito? Mi spiace, deve aspettare. Sì, lo so che lei è una professoressa: abbia pazienza»).
Un altro sono gli accenti di gratitudine e di ammirazione del rettore Giovanni Melis e del docente Giuseppe Marci, autore della laudatio , per uno scrittore che ieri ha rinsaldato un rapporto con Cagliari che risale alle lezioni degli anni '90 e alla lettura di Sergio Atzeni.
Un altro ancora - infine e soprattutto - è il regalo scelto dal romanziere per ricambiare l'onore accademico: un lungo excursus - letterario e poi intimo - sulle difficoltà del rapporto fra padre e figlio, fra antico e nuovo.
Il viaggio del Dottor Camilleri parte da Grazia Deledda, con l'ineluttabile obbedienza ai maggiori e alla tradizione, sfiora Gavino Ledda e Federigo Tozzi e si tuffa nel suo amatissimo Pirandello, così lontano dal proprio genitore garibaldino, concreto, uomo d'azione al punto «da finire coinvolto in sparatorie western», perplesso davanti a un figliolo con tanti impalpabili grilli per la testa, rinserrato nei suoi rancorosissimi silenzi. Un figlio che, sorpreso il padre a colloquio con l'amante, gli sputerà in faccia. E poi saprà raccontare le vite “agganciate a un gesto sbagliato”.
Ed è subito tempo di Svevo, in aula magna. È tempo di farsi guidare dal vocione pastoso e arrochito nella stanza da pranzo dove il padre di Zeno Cosini guarda quel figlio che lo inquieta più di chiunque altro. Lo inquieta perché ride, sa solo sganasciarsi per esprimere il proprio disagio, per prendere le distanze. Il vecchio lo crede pazzo? E lui si presenta dopo una visita con un certificato che attesta la sua perfetta salute mentale. Sarà quel foglio a convincere definitivamente il papà della sua follia.
E se quell'attestato di salute allontanerà padre e figlio, sarà una diagnosi infausta ad avvicinarli. La malattia del padre, l'odio di Zeno per il medico che potrebbe, dovrebbe fare tutt'altro per salvarlo, il terrore di dover finalmente vedere l'uomo che si celava dentro la corazza da Pater, e infine la voglia, la necessità di incontrarlo. Sono le tappe di una rincorsa frenetica, di una corsa contro il tempo per colmare le distanze e i silenzi. Scavalcare le incomprensioni, perdonare le amarezze. E quando il padre, nell'ultimo lampo di agonia, si leverà in piedi lucidissimo e spettrale e lascerà piombare sulla guancia di Zeno un ceffone, lui quel gesto violento se lo porterà dentro fino ad ammorbidirlo, trasfigurarlo, digerirlo, avendone infine una rilettura dolcissima della figura paterna.
E Camilleri, su quest'ultimo tratto del cammino di Zeno, non è d'accordo. Per spiegarlo fa forza alla sua ritrosia a parlare di sé e nell'aula magna, una frase dopo l'altra, prende forma e colore la figura di Camilleri senior. Un uomo non banale, un impasto di contraddizioni come siamo quasi tutti.
Fascista della prima ora e invincibilmente contrario alle leggi razziali: quando Andrea raccontò a casa che un suo compagno ebreo lo aveva salutato, spiegandogli che dal giorno dopo non gli sarebbe più stato consentito di seguire le lezioni, quella camicia nera «arrossì, strinse i pugni e disse che tra noi e gli ebrei non c'era alcuna differenza, le leggi razziali erano una tragica buffonata che serviva a far contento Hitler».
Era una figura complessa, uno squadrista che da giovane ufficiale - raro siciliano arruolato nella Brigata Sassari - aveva combattuto nella Grande Guerra agli ordini di Emilio Lussu, per il quale continuò sempre a nutrire un'autentica venerazione. Un fascista che perse la fede nel regime e non esitò a dirlo pubblicamente, andando verso il deferimento alla commissione disciplinare. Proprio in quei giorni Andrea si avvicinava al comunismo e nel dopoguerra, al momento del referendum, il padre monarchico e ormai liberale e il figlio rosso e repubblicano si guarderanno increduli dalle due sponde di un lago di silenzi offesi.
«Che cosa ho fatto io di male per avere un figlio comunista?» è una delle rare frasi paterne che spezzano in parte quei silenzi, ma non è una domanda diretta: Camilleri la orecchia in un dialogo fra i genitori. Delusioni gliene aveva date altre, non in campo politico ma sempre per via di passioni non condivise. Andrea non amava la caccia, al contrario del padre, e tantomeno amava le partite di calcio e neppure l'imprescindibile biliardo. Il padre lo amava, questo sì, e molto. E amava la sua biblioteca da borghese non intellettuale ma di buone letture. E questo amore velato di fraintendimenti, appannato da microscopiche delusioni vivrà ma forse senza scintillare fino a un pessimo giorno romano, quando un medico «mi spiegò che la pleurite di mio padre era un tumore diffuso, e gli restavano forse due mesi . Lo odiai, come Zeno odiava il medico di suo padre, quando dopo avermi dato brutalmente la notizia girò le spalle e si allontanò fischiettando».
Quelli che restano sono giorni di intimità fra padre e figlio in quella stanza di ospedale, in quel tempo sospeso dove il vecchio e l'adulto sussurrano, si tengono per mano, si pacificano. E quell'amore che era sempre andato dall'uno all'altro inciampando ora nella politica e ora nel biliardo, ora fluisce lieve e potente. Ma una notte il padre cambiò voce. Era più asciutta, ora, e imperiosa: «Tenente Camilleri. Tenente Camilleri!».
Andrea rimase confuso, e poi addolorato.
«Tenente Camilleri, si defili. Non vede che lì piovono pallottole? Si defili, le ho detto!».
Il padre riviveva una pagina della sua guerra. In quel momento era Lussu, e in suo figlio rivedeva se stesso.
«Si defili, tenente! Vuole dimostrarci di essere più coraggioso di noi, coglione di un siciliano?».
«Signorsì».
Quella risposta giusta rasserenò il padre, che si distese sul letto. Quando poi il figlio lo vide muovere con impaccio la mano verso il volto, capì che stava cercando di farsi il segno della croce. Lo aiutò. Poi fu congedato: «Ora esci».
«Ma papà...».
«Vai a fumarti una sigaretta, e torna dopo».
Camilleri obbedì all'ordine del tenente suo padre. Mentre fumava, sapeva che tornando nella stanza lo avrebbe trovato morto.
Celestino Tabasso