Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Commercio, la strage silenziosa

Fonte: L'Unione Sarda
18 marzo 2013


Da via Manno a via Garibaldi è un deserto. Chiude anche Benetton. Allarme di Confesercenti

Record negativo in Italia: chiuso il 31% dei negozi del centro

Nel mare di serrande abbassate e «affittasi», l'ultima sorpresa è la doppia chiusura di Benetton. Non due negozi qualsiasi. Quelli di via Manno, cuore nobile - e ormai decaduto - del commercio cagliaritano. Luci spente, via i manichini, sono rimasti solo i cartelloni dei saldi.
CRISI DRAMMATICA E c'è poco da stupirsi, se i dati diffusi da Confesercenti nelle ultime ore parlano di «un negozio sfitto ogni tre» nel centro di Cagliari. Numeri da deserto. Fatturati da fame: «L'altro giorno abbiamo incassato 15 euro, non ho mai visto una situazione del genere in sessant'anni di carriera», racconta Gianni Simonetti sull'uscio del suo negozio di calzature, in via Garibaldi. Una strada dove ben 20 serrande sono sbarrate. Alcune da anni.
POCHI SORRISI Le uniche nuove attività sono legate al business della sigaretta elettronica. «Gli affari vanno bene», spiega Giampiero, giovane torinese che ha scelto di trasferirsi in una città da cui molti cercano di scappare. Non è l'unico ad aver tentato questo percorso: il suo negozio di via Garibaldi, aperto a novembre del 2012, si è aggiunto a quelli di via Bacaredda, via Dante, via Tagliamento e altri ancora. In realtà le imprese sfruttano proprio gli effetti negativi della crisi economica: «La maggior parte dei clienti è attratta dal risparmio che si ha rispetto alle classiche sigarette. Nel confronto tra i due prezzi, rimane in tasca qualcosa. La salute, per quello che sento ogni giorno da chi viene a chiedere informazioni, viene in secondo piano».
CHIUDE BENETTON Tra le oltre 70mila imprese sarde che hanno contratto debiti con Equitalia (il totale sfiora i 5 miliardi di euro), ci sono tanti negozi. Che nell'ultimo semestre o sono falliti, o sono stati costretti alla chiusura. Come i due punti vendita di Benetton in via Manno: entrambe le attività in franchising sono state rilevate dalla casa madre, che ha intenzione di riaprirle nei prossimi mesi. Nel giro di qualche settimana potrebbero illuminarsi nuovamente le vetrine del negozio per bambini, mentre dopo l'estate (e dopo una ristrutturazione dei locali) dovrebbe essere il turno dell'abbigliamento per ragazzi e adulti. In questo caso, alle difficoltà della società che aveva in gestione i punti vendita, si è aggiunta la strategia della multinazionale italiana, che ha intenzione di prendere direttamente in mano le redini di un centinaio di negozi in tutta la Penisola, per seguire il modello di tutte le altre grandi catene dell'abbigliamento.
CONFESERCENTI «I dati di questo primo bimestre», dice Marco Sulis, presidente regionale della Confesercenti, «dimostrano ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, la gravità del momento che sta attraversando il comparto del commercio al dettaglio, soprattutto quello legato a piccole e medie superfici. Per arginare la deriva, è indispensabile e urgente agire su due livelli: da un lato occorrono politiche nazionali volte alla diminuzione degli aggravi fiscali per cittadini e imprese, per favorire il rilancio dei consumi e del mercato interno; dall'altro, è necessario intervenire sui problemi particolari del settore». Le serrande abbassate e i negozi sfitti rappresentano anche un danno per lo Stato. In tutta Italia «sono andati in fumo 25 miliardi di canoni d'affitto e 6,2 miliardi di gettito fiscale: più dell'Imu per la prima casa, che è di circa 4 miliardi di euro», conclude Sulis.
RECORD NEGATIVO Cagliari, sotto questo profilo, è la prima città della Penisola: nel centro storico il 31 per cento dei negozi è chiuso. Numeri del genere solo a Rovigo (29 per cento), Catania (27 per cento) e Palermo (26 per cento). E se la media degli impiegati in ogni attività di questo tipo è di 2,5 persone, significa che nel solo asse via Garibaldi-via Manno, dove sono chiusi 27 negozi, oltre ai padroni hanno perso il lavoro quasi 65 commessi. I dati nazionali non sono incoraggianti: nel primo trimestre 2013, hanno alzato bandiera bianca 14mila micro imprese. E le previsioni per la fine dell'anno sono nere. Si potrebbe arrivare a quota 60mila. Anche negli altri settori la situazione è simile: nei primi tre mesi dell'anno trimestre hanno chiuso in tutta Italia 9.500 tra bar, ristoranti e attività simili. Una vera strage.
Michele Ruffi

 


PARERI. Idee per il rilancio
«Isole pedonali
con gazebo
e caffetterie»
Non c'è solo la crisi economica e gli affitti alle stelle. Dietro la moria dei negozi in centro storico c'è spesso anche «una discreta improvvisazione: fare i commercianti, essere imprenditori, non è semplice. E negli ultimi anni in tanti hanno provato ad aprire un'attività, purtroppo con scarsi risultati», dice Lino Bistrussu, componente della giunta nazionale di Federmoda, la federazione che riunisce i negozi d'abbigliamento al dettaglio e all'ingrosso.
Manca, però, anche un intervento da parte delle amministrazioni: «Via Manno e via Garibaldi hanno bisogno di una riqualificazione. E di parcheggi. Invece manca una politica che serva a incentivare l'apertura di attività nei centri storici, come si è fatto in altre nazioni d'Europa», spiega Bistrussu.
Anche Roberto Bolognese, presidente provinciale di Confesercenti, crede che una nuova organizzazione delle strade del commercio possa aiutare i negozianti: «Via Garibaldi e via Manno devono diventare isole pedonali. Con un assetto del genere, si potrebbero aggiungere gazebo, fioriere, tavolini, qualcuno potrebbe cambiare attività: magari in mezzo a tutti i negozi d'abbigliamento che soffrono c'è qualcuno che deciderà di aprire una gelateria o un bar». Il deserto che si è creato nel centro storico è legato anche alla poca tenacia di qualche imprenditore? «No. I negozianti cercano di resistere fino alla fine. E spesso fanno un danno al proprio patrimonio e a quello delle famiglie». Ma il fattore negativo, per Bolognese, «è soprattutto l'essere vittima delle abitudini: non c'è diversificazione, non c'è fantasia, non c'è voglia di cambiare». Insomma: c'è chi vuole nascere e morire con la stessa bottega. «Il 90 per cento degli imprenditori non vuole cambiare settore merceologico. Guardate solo con quanta lentezza ci apriamo all'e-commerce». (m.r.)