Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Marisa Sannia, addio a una malinconica poetessa dell’anima

Fonte: La Nuova Sardegna
16 aprile 2008

WALTER PORCEDDA

Sul vinile, in controluce si legge «2 aprile 1969». È la data di stampa e di uscita de «La compagnia», rigorosamente in quarantacinque giri. Trentanove anni fa Marisa Sannia regalava uno dei brani maggiormente di culto degli anni sessanta, ripresa non a caso da Vasco Rossi lo scorso anno in una bella cover con Mike Landau alla chitarra e Vinnie Colaiuta alla batteria. Una canzone che, all’ascolto, entra lentamente, con discrezione, prendendo il cuore fino a non lasciarlo più. Una delle più belle scritte da Mogol in coppia con Carlo Donida. Un gioiello che sembrava concepito appositamente per la cantante di Iglesias, andata via in punta di piedi l’altra sera a soli sessantun anni e con tantissima arte ancora da tirare fuori. Un inizio lento, quasi una pavane, che progressivamente si apre. Un ritmo di marcia che si trasforma in aria. Sannia la interpretava in modo dolce ma fermo, fino a farla esplodere in un inno alla vita: la voglia di abbandonare la tristezza e ritrovare una ragione per vivere l’amicizia, l’amore. Fu proprio la cantante a dare a «La Compagnia» la veste giusta con il suo stile che, già negli anni sessanta - quando Endrigo la scoprì lanciandola poi nel music business dell’epoca - non aveva uguali. Regale e bellissima con il suo caschetto biondo che sembrava una replica dorata di quello della celebre Valentina, eroina delle strisce che il fumettista Guido Crepax, proprio in quegli anni, disegnava su «Linus». Una presenza discreta ma che non passava assolutamente inosservata, proprio per quel suo tocco di classe naturale. Raffinata e austera allo stesso tempo, dal suo viso dai lineamenti forti, eppure dolci, di donna sarda, emanava l’energia di una forza tranquilla. Artista che poco concedeva allo star sistem e ai suoi giochi crudeli. Fu proprio con la «Compagnia» che esordì nella Cgd, etichetta allora in voga (aveva lanciato Caterina Caselli) dopo aver rotto con la prima casa, la potente Fonit Cetra, verosimilmente perchè voleva imporle la partecipazione a Sanremo in coppia con Gianni Pettenati (famoso per aver lanciato «Bandiera gialla», versione italiana di «The Pied Piper»). Marisa Sannia era così un’artista che sceglieva, si metteva in gioco facendo scelte anche contro corrente. Cioè difficili, magari non facilmente vendibili, nel senso di bassamente commerciale. Lo testimonia tutta la sua carriera, costellata dei successi sanremesi - dalla celebre «Casa Bianca» di Don Backy cantata in coppia con Ornella Vanoni nel 1968 a Sanremo (dove si presentò altre tre volte: nel 1970, nel 1971 e nel 1984) - e di altri lavori che andrebbero riascoltati (vedi ad esempio «La pasta scotta» primo album cantautorale del 1976) con attenzione per riscoprire fino in fondo le doti e il valore di una protagonista di primo piano della musica leggera italiana, cresciuta a contatto con i cantautori e di una intelligenza musicale che era colta e impegnata. Cultura e impegno ma anche attenzione alle radici. È la Sannia della musica sarda. Una nostra Amalia Rodrigues che torna a concentrarsi sui suoni e le parole e i versi - quelli del grande «Montanaru», Antioco Casula - della lingua natale per disegnare capolavori musicali in cui fanno capolino insinuanti atmosfere di fado accanto ad intense e melodiche riletture poetiche. Da «Sa oghe e su entu e de su mare» (1993) a «Melagranada» (1997), da «Nanas e janas» (2003) sino all’ultimo omaggio a Lorca, «Rosa de papel». Album che resteranno per sempre nella memoria della musica sarda, opere di Marisa Sannia, poetessa malinconica di un tempo che non esiste più.