Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Filippini, casa e famiglia

Fonte: L'Unione Sarda
12 settembre 2012


VERSO LA CONSULTA.

Viaggio nelle comunità straniere radicate in città
 

Sono quasi 1.400 residenti, l'etnia più numerosa
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Non si può raccontare un popolo in poche parole, racchiudere acclarate virtù o vizi segreti in una pagina scritta, tanto più se è migrante e già su di lui ci siamo fatti mille idee e altrettanti preconcetti fondati su quei pochi incroci che abbiamo condiviso nel nostro percorso. Quello che si può fare è iniziare un cammino di conoscenza, perché l'elezione della Consulta degli stranieri a Cagliari è vicina (15 novembre) e la presentazione della candidature ancor di più (18 ottobre). Si può partire con la comunità filippina non solo perché è la più numerosa ma è anche quella che più si è integrata in città scegliendo di sposarsi qui, di far nascere i propri figli in terra sarda e qui ha deciso di mandarli a scuola, guardando con favore i matrimoni misti e condividendo gli appuntamenti di culto.
Si può iniziare con un faccia a faccia con uno dei referenti, Elmer Orilla, 38 anni, dal 2001 a Cagliari. In molti dicono che sarà il candidato favorito dai suoi connazionali. Ma sarà giusto una prima tappa nel cammino della comprensione con un uomo dallo spiccato humor britannico, «sapevo che prima o poi mi avreste chiamato, del resto il vostro direttore editoriale è Filippini», e dalle F che nel suo parlare diventano P come nel miglior luogo comune.
Signor Orilla perché è venuto in Italia?
«Per lavorare, ovviamente».
Che lavoro fa?
«Domestico, ovviamente». (ride)
Che studi ha compiuto?
«Sono laureato e ho un master in comunicazione».
Quante lingue parla?
«Tre abbastanza bene».
Perché siete venuti in così tanti a Cagliari?
«Lo capisci da quando sbarchi al porto, il tuo primo giorno, che questo è un luogo accogliente e tranquillo. Ci troviamo bene, molto bene. Ma c'è anche un'altra ragione».
Qual è?
«Siete stati voi a chiamarci ma noi ovviamente aspettavamo di essere chiamati».
Si spieghi meglio.
«I primi filippini che sono arrivati a Cagliari oltre 20 anni fa hanno saputo lavorar bene e farsi accettare, forse amare, dalle famiglie che li assumevano. Così quei datori di lavoro hanno domandato loro Ma non è che avete un parente che vuole venire a lavorare da un mio amico? E noi abbiamo fatto venire fratelli e cugini, poi amici e conoscenti».
E in 20 anni siete diventati quasi 1.400 residenti in città.
«E sì, tutti con il permesso di soggiorno, tutti al lavoro o a scuola».
Ma è vero che siete per la gran parte parenti?
«Quasi vero. Il nesso è in quello che ho spiegato poco fa: alla richiesta da parte di una famiglia cagliaritana di un altro badante o di un'altra domestica ovviamente ci siamo rivolti ai parenti più prossimi. Possiamo dire che i miei connazionali, che oggi vivono in città, arrivano in gran parte da Batangas City e Bagaligit e che appartengono o sono legati a tre principali famiglie: gli Hernadez, gli Albuera e i Mendoza».
Tutti badanti o collaboratori domestici?
«Quasi tutti, ci siamo fatti valere in questo settore e siamo richiesti per questo. Poi ci sono diversi di noi che lavorano nel mondo della ristorazione, alcuni hanno messo su qualche attività commerciale. Ma principalmente lavoriamo nelle case».
Quanto guadagnate in media?
«Nulla». (e ride)
Come nulla?
«Non guadagniamo nulla come la gran parte degli italiani in questo momento. Mi spiego: il nostro stipendio varia tra gli 800 e i 1.300 euro al mese. Affitto, bollette, spesa e invio dei soldi alle famiglie in patria. Non si guadagna, ci si permette di vivere in maniera più che decorosa. Non è poco. Ma guadagnare è un'altra cosa. Pensate che riusciamo a tornare nel nostro Paese non più di una volta ogni 3 anni proprio perché non riusciamo a permetterci il costo del biglietto ormai troppo alto per le nostre tasche».
Però l'affitto ve lo dividete in tanti, così sembra a noi che vi osserviamo dall'esterno, o no?
«Forse una volta. È vero. Oggi la normativa dice che non possiamo avere la residenza in più di sei in uno stesso appartamento quindi...».
Ma visti i tempi magri perché mandare i soldi a chi è rimasto nelle Filippine?
«È un obbligo morale. Non tutti hanno trovato lavoro come noi e in patria a causa dei disastri naturali si vivono tempi ancora più difficili. Lei non lo farebbe?».
Come spiega che mai o raramente un filippino è finito fra i protagonisti della cronaca nera?
«Siamo venuti qui per lavorare. Lavoro, lavoro, lavoro questo c'è nella nostra mente e sappiamo che se sgarriamo perderemo tutto. In verità c'è una maniera per riassumere l'indole del nostro popolo».
Ce la dica.
«I filippini sono tutto chiesa, lavoro, famiglia, basket e festa».
Ecco iniziamo dalla festa. Quando la fate nel quartiere se ne accorgono tutti. Specie per i vostri karaoke.
«Ahahaha. Sì, ci facciamo sentire parecchio. Ma questo è il vero segreto per cui non finiamo nella cronaca nera. Scagliamo via tutte le nostre energie negative sfogandole sul microfono di un karaoke. Oppure su un campo da basket».
Chiesa. Giusto domenica avete portato la Madonna in processione, eravate tantissimi a La Palma.
«Siamo fortemente cristiani. Qui abbiamo due sacerdoti che ci hanno tenuto uniti celebrando la messa in filippino».
Famiglia. Molti dei vostri figli sono nati qui, esiste un scontro culturale e generazionale con i padri?
«Certo. Scontro forse è una parola forte. Diciamo che si sente la differenza fra quei padri che sono venuti qui pronti a fare sacrifici e quei figli che quei sacrifici non li hanno conosciuti ma hanno tratto solo benefici. Poi nella nostra nazione un giovane non si permetterebbe mai di disubbidire o contraddire un genitore, qui invece sì. Pensate che i nostri ragazzi nelle Filippine non vanno a prendere il sole perché avere la pelle chiara è sintomo di benessere, un vecchio retaggio della dominazione spagnola. A Cagliari invece appena possono corrono al Poetto con i loro compagni di scuola. Tante piccole cose cambiano a volte in meglio, a volte no».
Sempre famiglia. Come è accettata la possibilità di matrimoni misti?
«Mia sorella è sposata con un carlofortino. E siamo tutti molto felici».
Francesco Abate