Rassegna Stampa

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Quanto costano i tirocini formativi a Cagliari: l'ultima grande beffa dei giovani che sognano un lav

Fonte: web Castedduonline.it
6 agosto 2012

 

3/08/2012 21:37
di Francesca Corrias

Luglio è il mese che molti laureati, alcune stime dicono circa 176 mila, hanno atteso per affrontare il test nazionale del Tfa: Tirocinio Formativo Attivo. Si tratta, per alcuni, della possibilità di provare a convertire anni di studio e fatica in un’abilitazione all’insegnamento, per altri dell’ennesima trovata ministeriale per accrescere le fila del precariato. Certo è che utile o no il Tfa non è una prova che si faccia a cuor leggero, costa e non poco: 120 euro è la cifra richiesta per ogni classe concorsuale a Cagliari. I laureati in lettere classiche, per esempio, arrivano a spendere fino a 520 euro per partecipare a tutte le classi di abilitazione a cui hanno diritto. Una volta passato il test nazionale e le due prove selettive allestite nella propria facoltà di pertinenza, i candidati devono poi pagare ben 2500 euro per accedere ad un tirocinio formativo di un anno. Insomma, a conti fatti, un vero e proprio investimento.

In un periodo economicamente grigio come quello in cui viviamo il tema dei costi non è affatto secondario e può diventare addirittura determinante se si considera che molti aspiranti insegnanti sono dei disoccupati a carico delle famiglie. In parecchi però hanno deciso di investire, di sperare in un’opportunità che sembrava ormai qualcosa di impossibile dopo la chiusura, nel 2008, delle Siss. Tanti altri hanno rinunciato perché non avevano i soldi e non volevano pesare ulteriormente sulle spalle di mamma e papà che già a fatica avevano pagato loro anni di tasse, affitti e libri universitari.  Questo il clima che accompagna lo svolgimento dei test: ciascun candidato sa che ha l’opportunità quest’anno, che l’ha pagata cara e che non la può sprecare. La ricevuta del pagamento bancario della tassa di iscrizione, quella è il passepartout per accedere al tuo posto in aula, per avere una busta sigillata del MIUR. È l’unica cosa che devi portare insieme alla carta d’identità, è la prima cosa che ti chiedono, forse è anche l’unica cosa che conta… aver pagato.

Probabilmente professori non ne servono in Italia, abbiamo fin troppi precari, sicuramente non servono professori di filosofia dato che hanno avuto la fortuna di passare il test solo il 3% di chi ha fatto domanda e per questo sconsolante risultato non si è pensato ad un abbassamento del quorum d’ingresso, meglio incassare 120 euro a partecipante che pensare ad allestire un tirocinio. Cosa dire poi delle classi concorsuali A050 ed A043 per le quali il test, svoltosi oggi 25-VII, era identico, ma ovviamente i candidati hanno dovuto pagare per entrambi. Non è forse questo quel che si dice fare cassa? In un articolo del Corriere della Sera on line L. Canfora ha definito i fautori dei test degli analfabeti, può darsi che di lettere ne sappiano poco, ma sicuramente nel far di conto sono dei veri professionisti.

Aspiranti insegnanti con una penna nera in mano ed il naso davanti al foglio delle domande a rispondere a quesiti improponibili, di cui talvolta, come è stato segnalato, lo stesso Cineca fornisce la risposta errata, poco precisa ed alle volte esagera e sbaglia pure la domanda. Si chiede ai futuri insegnanti di italiano e latino di sapere quale stato non confini con il Mali, quali paesi facciano parte del cd del BRIC, quale sia l’anno in cui è stato decapitato Luigi XVI o meglio ancora si citano loro tre versi di una poesia e si pretende che ne sappiano riconoscere, a naso, l’autore come se la letteratura ne vantasse sei o sette, come se fosse questa la competenza, questa la preparazione. Ad una selezione bisorrà pur sottoporsi, siamo tutti d’accordo, ma stabiliamo se sia etico pretendere un’arida preparazione nozionistica, se sia giusto sottoporre un aspirante insegnante a sessanta quesiti per i quali è necessaria una conoscenza da vero tuttologo. Studiare anni, con abnegazione, passione e fatica per dover poi partecipare alla finalissima di Chi vuol esser milionario?, perché questo era in sostanza il test del Tfa.

Poi ci sono anche i buontemponi che ti dicono che l’università non ti prepara abbastanza, che si lanciano nella ormai abusata e scolorita diatriba tra i giovani e i vecchi di plautina memoria. Sostenitori irremovibili della maggior bontà della scuola di una volta, degli insegnanti di una volta e delle Università di una volta e chissà quante altre volte son disposti a prendere in analisi sotto la loro lente da indagatori dei fenomeni sociali senza rendersi conto che siamo qua, adesso e questa volta e le cose devono cambiare. Su una cosa avevano ragione, non eravamo preparati, non siamo orgogliosamente preparati al nozionismo, non abbiamo studiato materie come la letteratura italiana, latina, greca per sapere gli anni esatti delle pubblicazioni delle opere. A questo, grazie al cielo, l’università non ci ha preparato. Ci sono però tornati utili gli anni degli spensierati giochi infantili, perché per rispondere a certe domande l’unica cosa su cui abbiamo potuto contare è stato il vecchio caro “ambarabaccicciccoccò”. Non dovremmo forse ritenerci umiliati e presi in giro? Non si dovrebbe magari cercare di ristabilire un contatto fra la parola meritocrazia e la realtà vigente a cui si intende applicarla? Ho 25 anni, mi sono laureata con 110 e lode in cinque anni esatti, quest’anno l’Ateneo mi ha inviato una mail per dirmi che ero nella graduatoria dei 22 migliori laureati dell’Università degli studi di Cagliari, nel mio corso di laurea sono arrivata prima e forse non passerò alcun test. Appurato che la meritocrazia non è di casa nel Tfa, potremmo quanto meno fare un po’ di spazio all’etica e alla morale per poter correggere quelle che il Ministero ha definito delle "criticità"?

In risposta ad un mio stato polemico pubblicato su Facebook una mia amica spagnola scrive che "la Spagna è simile all’Italia, la meritocrazia non esiste o non è importante", da una buona percentuale di quanti a cui ho esposto il mio disappunto sui test ho ricevuto come replica un rassegnato "Siamo in Italia". La maggior parte di loro ha 25 anni o poco  più, forse sono un’idealista, ma vorrei un paese migliore e non è con il disfattismo e la rassegnazione che lo si costruirà.