Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Schiavazzi torna in città

Fonte: L'Unione Sarda
24 maggio 2012

Domani alle 21 al Conservatorio proiezione de “Il trionfo della vita”

Il tenore cagliaritano attore nel film muto ritrovato

Un film muto considerato irrimediabilmente perduto che torna sullo schermo è come un morto che resuscita. È un frammento della memoria, talvolta sopravvissuto solo sulla carta attraverso qualche riga di recensione o cronaca dell'epoca, che all'improvviso riacquista ritmo, respiro e movimento. Succederà domani nell'attesa giornata dedicata al cagliaritano Piero Schiavazzi, grande tenore che calcò i palcoscenici di mezzo mondo all'inizio del secolo scorso ma che fu anche attore cinematografico nel periodo del muto. Dopo peripezie e piste seguite col fiuto da segugio di razza la Cineteca Sarda-Società Umanitaria ha ritrovato uno dei quattro film interpretati da Schiavazzi, Il trionfo della vita , girato nel 1922 da Antonio Gravina: sarà proposto all'Auditorium del Conservatorio con il commento musicale dal vivo di Gabriella Artizzu al pianoforte (inizio ore 21, ingresso libero fino a esaurimento posti).
UNICO FILMATO Di Schiavazzi, figlio amatissimo e illustre di Cagliari, esistono molte fotografie ma non c'era finora alcuna immagine filmata: il risorgere di questa pellicola lo mostra finalmente muoversi, gesticolare, lanciare torve occhiate, proporsi in gesti teatrali, un modo quindi per intuire la magnetica presenza scenica e istrionica che aveva sul palcoscenico e che tutti i critici gli hanno sempre riconosciuto. E questa possibilità concreta di verificare le sue spavalde doti attoriali, che ben si sposavano con una voce memorabile, vale da sola l'eccezionalità del ritrovamento del film. Il trionfo della vita è l'ultima interpretazione cinematografica di Schiavazzi: ha un ruolo secondario mentre nelle tre precedenti pellicole - Il bastardo del 1915, La morte del duca d'Ofena del 1916 e L'ombra di un trono del 1921 - rivestiva la parte di protagonista.
LA SCELTA DEL CINEMA Non ci sono documenti o interviste (tantomeno cenni nelle sue memorie) che spiegano l'attrazione verso il cinematografo del grande tenore, che rinunciava alla sua voce - alla quale doveva fama, soldi e popolarità - per diventare solo una figura in movimento. Ma il cinema, in quegli anni, era l'invenzione del secolo, una irresistibile forma d'arte che replicava e trasformava la vita, non solo un fenomeno da baraccone. Sicuramente Schiavazzi s'era trovato a suo agio: sullo schermo poteva trasferire una fisicità scattante e nervosa, una padronanza dei mezzi espressivi, soprattutto della mimica e esaltare - attraverso il primo piano - un volto incorniciato da una capigliatura Liberty e marcate sopracciglia, capace di ghigni e sguardi incendiari. E liberare una sensualità ombrosa e maschia, alla Rodolfo Valentino, che si portava come un marchio perché nella vita era stato un viveur amante delle belle donne. Il cinema rappresentava la trasgressione, poteva moltiplicargli fama e danaro, soprattutto poteva garantirgli - con la voce che perdeva forza e i grandi teatri che riducevano le scritture - una seconda vita artistica e rinnovargli il credito di popolarità con la massa adorante.
IL RUOLO DI CATTIVO Sarà per uno o per tutti questi motivi che il Nostro si lasciò tentare dalla settima arte. Non ricevette recensioni entusiaste, anche perché i film non erano granché, ma lasciò un segno. “Bucava lo schermo” come si dice in gergo e Il trionfo della vita ben rappresenta la sua predisposizione a farsi notare: ha infatti il ruolo ingrato del cattivo che se da un lato risulta “pericoloso” nei confronti del pubblico, allora schierato per il bene e la giustizia, dall'altro diventa il centro narrativo ed emotivo del film, perché è sempre la figura dell'infame a far grandi anche gli altri protagonisti.
Piero Schiavazzi è Carlo Bonaldi, contabile di una grande fabbrica. Compare al minuto dodicesimo dopo il prologo (il film è diviso in tre parti: trionfo dell'amore, del male e della vita) elegante nel completo a righe, cravatta e fazzoletto nel taschino. È alla scrivania a far di conto quando entra Renata, ex dattilografa diciottenne (Elsa D'Auro), impalmata dal padrone della fabbrica, Luciano Pratesi (Antonio Gravina, anche regista), col quale è andata a vivere d'amore e d'accordo: basta uno sguardo e Bonaldi-Schiavazzi, sollevando gli occhi al cielo, s'è già perdutamente invaghito della giovane. Alla quale non esita, al secondo incontro, a dichiarare la «passione folle che mi brucia nelle vene».
STRUGGENTE MELÒ Siamo dentro un melò struggente - azione drammatica, precisa il cartello iniziale - che andava molto in voga in quel periodo: eredità del romanzo d'appendice, con virata patetica e, in assenza di happy end, chiusura con pentimento e patimento. In mezzo, a scandire i colpi di scena, c'è il malvagio Bonaldi che architetta un piano per mandare in fallimento il padrone e soffiargli l'amata donna, già in attesa di un figlio. Attira Renata a casa sua, promettendole di salvare dal tracollo Luciano e, con lettera anonima convoca anche lui, facendo scattare la trappola del tradimento: l'uomo la coglie in flagrante nella stanza del suo ex datore di lavoro e la ripudia. Al dramma si aggiunge dramma: Renata è senza lavoro, abbandonata è confortata solo dall'amica del cuore, muore di stenti il bambino e lei sfiduciata medita di farla finita. Un (finto) miracolo evita la tragedia ma lascia sulla donna il peso della colpa e dell'espiazione. E Bonaldi-Schiavazzi? Nel sottofinale ricompare per la scena clou: è finito in prigione per la sua perfida truffa e ora colpito da paralisi, sul letto di morte, si pente davanti a Renata, invocando il perdono. Un agitarsi contenuto, col braccio teatralmente alzato, una smorfia in primo piano con la bocca storta e gli occhi roteanti, lo sguardo che si spegne e il corpo che si tende nell'ultimo sforzo cedendo all'indietro col capo reclinato.
Ad essere sinceri non è un gran film Il trionfo della vita , rispetto per esempio a Cainà (entrambi del 1922 e ritrovati dalla Cineteca Sarda) ha una regia debole e una storia lacrimosa, gonfiata da didascaliche auliche (tipo «ebbri d'amore e di vita») e colorata col metodo dell'imbibizione per far risaltare scene e sentimenti (toni slavati di arancio, verde, marron per sottolineare passione, serenità, dramma).
BELLA INTERPRETAZIONE Qui e là qualche spunto interessante e curioso: un colloquio telefonico ha le frasi che corrono sul disegno dei fili del telegrafo, rari dettagli simbolici come il mazzo di rose appassite e un finale, tormentato, davanti al santuario sulla rocca a strapiombo che regala una sorpresa. Ma c'è Piero Schiavazzi e per quanto defilata la sua interpretazione, assieme a quella di Elsa d'Aura - occhi bistrati, le moine dell'innamorata che diventano gesti cedevoli e poi angosciosi - è la parte più bella del film. Aveva già 47 anni Piero Schiavazzi, il primo piano svela impietosamente la pelle grinzosa sotto gli occhi, e non si tratta di un trucco di scena: troppo vecchio per chiedere al cinema di regalargli una seconda carriera sotto i neon del successo.
Sergio Naitza