Domani alle 21 al Conservatorio proiezione de “Il trionfo della vita”
Il tenore cagliaritano attore nel film muto ritrovato
Un film muto considerato irrimediabilmente perduto che torna sullo schermo è come un morto che resuscita. È un frammento della memoria, talvolta sopravvissuto solo sulla carta attraverso qualche riga di recensione o cronaca dell'epoca, che all'improvviso riacquista ritmo, respiro e movimento. Succederà domani nell'attesa giornata dedicata al cagliaritano Piero Schiavazzi, grande tenore che calcò i palcoscenici di mezzo mondo all'inizio del secolo scorso ma che fu anche attore cinematografico nel periodo del muto. Dopo peripezie e piste seguite col fiuto da segugio di razza la Cineteca Sarda-Società Umanitaria ha ritrovato uno dei quattro film interpretati da Schiavazzi, Il trionfo della vita , girato nel 1922 da Antonio Gravina: sarà proposto all'Auditorium del Conservatorio con il commento musicale dal vivo di Gabriella Artizzu al pianoforte (inizio ore 21, ingresso libero fino a esaurimento posti).
UNICO FILMATO Di Schiavazzi, figlio amatissimo e illustre di Cagliari, esistono molte fotografie ma non c'era finora alcuna immagine filmata: il risorgere di questa pellicola lo mostra finalmente muoversi, gesticolare, lanciare torve occhiate, proporsi in gesti teatrali, un modo quindi per intuire la magnetica presenza scenica e istrionica che aveva sul palcoscenico e che tutti i critici gli hanno sempre riconosciuto. E questa possibilità concreta di verificare le sue spavalde doti attoriali, che ben si sposavano con una voce memorabile, vale da sola l'eccezionalità del ritrovamento del film. Il trionfo della vita è l'ultima interpretazione cinematografica di Schiavazzi: ha un ruolo secondario mentre nelle tre precedenti pellicole - Il bastardo del 1915, La morte del duca d'Ofena del 1916 e L'ombra di un trono del 1921 - rivestiva la parte di protagonista.
LA SCELTA DEL CINEMA Non ci sono documenti o interviste (tantomeno cenni nelle sue memorie) che spiegano l'attrazione verso il cinematografo del grande tenore, che rinunciava alla sua voce - alla quale doveva fama, soldi e popolarità - per diventare solo una figura in movimento. Ma il cinema, in quegli anni, era l'invenzione del secolo, una irresistibile forma d'arte che replicava e trasformava la vita, non solo un fenomeno da baraccone. Sicuramente Schiavazzi s'era trovato a suo agio: sullo schermo poteva trasferire una fisicità scattante e nervosa, una padronanza dei mezzi espressivi, soprattutto della mimica e esaltare - attraverso il primo piano - un volto incorniciato da una capigliatura Liberty e marcate sopracciglia, capace di ghigni e sguardi incendiari. E liberare una sensualità ombrosa e maschia, alla Rodolfo Valentino, che si portava come un marchio perché nella vita era stato un viveur amante delle belle donne. Il cinema rappresentava la trasgressione, poteva moltiplicargli fama e danaro, soprattutto poteva garantirgli - con la voce che perdeva forza e i grandi teatri che riducevano le scritture - una seconda vita artistica e rinnovargli il credito di popolarità con la massa adorante.
IL RUOLO DI CATTIVO Sarà per uno o per tutti questi motivi che il Nostro si lasciò tentare dalla settima arte. Non ricevette recensioni entusiaste, anche perché i film non erano granché, ma lasciò un segno. “Bucava lo schermo” come si dice in gergo e Il trionfo della vita ben rappresenta la sua predisposizione a farsi notare: ha infatti il ruolo ingrato del cattivo che se da un lato risulta “pericoloso” nei confronti del pubblico, allora schierato per il bene e la giustizia, dall'altro diventa il centro narrativo ed emotivo del film, perché è sempre la figura dell'infame a far grandi anche gli altri protagonisti.
Piero Schiavazzi è Carlo Bonaldi, contabile di una grande fabbrica. Compare al minuto dodicesimo dopo il prologo (il film è diviso in tre parti: trionfo dell'amore, del male e della vita) elegante nel completo a righe, cravatta e fazzoletto nel taschino. È alla scrivania a far di conto quando entra Renata, ex dattilografa diciottenne (Elsa D'Auro), impalmata dal padrone della fabbrica, Luciano Pratesi (Antonio Gravina, anche regista), col quale è andata a vivere d'amore e d'accordo: basta uno sguardo e Bonaldi-Schiavazzi, sollevando gli occhi al cielo, s'è già perdutamente invaghito della giovane. Alla quale non esita, al secondo incontro, a dichiarare la «passione folle che mi brucia nelle vene».
STRUGGENTE MELÒ Siamo dentro un melò struggente - azione drammatica, precisa il cartello iniziale - che andava molto in voga in quel periodo: eredità del romanzo d'appendice, con virata patetica e, in assenza di happy end, chiusura con pentimento e patimento. In mezzo, a scandire i colpi di scena, c'è il malvagio Bonaldi che architetta un piano per mandare in fallimento il padrone e soffiargli l'amata donna, già in attesa di un figlio. Attira Renata a casa sua, promettendole di salvare dal tracollo Luciano e, con lettera anonima convoca anche lui, facendo scattare la trappola del tradimento: l'uomo la coglie in flagrante nella stanza del suo ex datore di lavoro e la ripudia. Al dramma si aggiunge dramma: Renata è senza lavoro, abbandonata è confortata solo dall'amica del cuore, muore di stenti il bambino e lei sfiduciata medita di farla finita. Un (finto) miracolo evita la tragedia ma lascia sulla donna il peso della colpa e dell'espiazione. E Bonaldi-Schiavazzi? Nel sottofinale ricompare per la scena clou: è finito in prigione per la sua perfida truffa e ora colpito da paralisi, sul letto di morte, si pente davanti a Renata, invocando il perdono. Un agitarsi contenuto, col braccio teatralmente alzato, una smorfia in primo piano con la bocca storta e gli occhi roteanti, lo sguardo che si spegne e il corpo che si tende nell'ultimo sforzo cedendo all'indietro col capo reclinato.
Ad essere sinceri non è un gran film Il trionfo della vita , rispetto per esempio a Cainà (entrambi del 1922 e ritrovati dalla Cineteca Sarda) ha una regia debole e una storia lacrimosa, gonfiata da didascaliche auliche (tipo «ebbri d'amore e di vita») e colorata col metodo dell'imbibizione per far risaltare scene e sentimenti (toni slavati di arancio, verde, marron per sottolineare passione, serenità, dramma).
BELLA INTERPRETAZIONE Qui e là qualche spunto interessante e curioso: un colloquio telefonico ha le frasi che corrono sul disegno dei fili del telegrafo, rari dettagli simbolici come il mazzo di rose appassite e un finale, tormentato, davanti al santuario sulla rocca a strapiombo che regala una sorpresa. Ma c'è Piero Schiavazzi e per quanto defilata la sua interpretazione, assieme a quella di Elsa d'Aura - occhi bistrati, le moine dell'innamorata che diventano gesti cedevoli e poi angosciosi - è la parte più bella del film. Aveva già 47 anni Piero Schiavazzi, il primo piano svela impietosamente la pelle grinzosa sotto gli occhi, e non si tratta di un trucco di scena: troppo vecchio per chiedere al cinema di regalargli una seconda carriera sotto i neon del successo.
Sergio Naitza