Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Cagliari città distratta

Fonte: L'Unione Sarda
20 aprile 2012

AMORE E RABBIA.

Antonello Sanna, preside della facoltà di Architettura
 


È un luogo d'eccellenza sconosciuto agli abitanti
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Nella sala docenti della facoltà di Architettura, in via Santa Croce - edificio progettato da Gaetano Cima - la finestra incornicia un panorama emozionante: le ultime propaggini di Castello, il cuore antico della città, s'incollano - nella prospettiva schiacciata - allo specchio immobile di Santa Gilla. Pietra e acqua, due anime di Cagliari che convivono senza contraddizioni. «È un'immagine che riassume la bellezza della città e le sue potenzialità», chiosa il professor Antonello Sanna, preside della facoltà.
Con lui si può provare a raccontare Cagliari sotto la lente architettonica e urbanistica, per capire quanto e come è cambiata e in che modo potrebbe crescere. Ingegnere, professore ordinario di Architettura Tecnica e preside di recente nomina (2009) della più giovane facoltà dell'ateneo (2000), che punta ad essere un laboratorio di stimoli e progetti.
Ma soprattutto Sanna è - per sua stessa definizione - un cagliaritano “conservatore”: «Abito in via Roma, nella stessa casa in cui sono nato». Le radici familiari invece sono tra Nuoro e Carloforte, un meticciato che è poi caratteristica degli abitanti di Cagliari, diventata storicamente luogo di convergenza da ogni angolo della Sardegna. Al centro dei suoi interessi c'è sempre stata la città, «fin dagli anni dell'Università e il bisogno di migliorarla mettendo in correlazione periferia e centro storico, la città degli uomini e la città sociale, il suo intreccio di storia e geografia».
Quale opinione s'è fatto su Cagliari?
«È uno dei luoghi d'eccellenza del Mediterraneo, simboleggiato da un paesaggio e un ambiente straordinari. E dalle stratificazioni storiche: qui convivono epoche diverse e anche contrapposte, c'è una fortissima presenza del passato ma gli abitanti pare non se ne accorgano».
Distrazione o menefreghismo?
«Mi ha sempre meravigliato che Cagliari abbia dimostrato una certa inconsapevolezza, una scarsa capacità di conoscersi e valorizzarsi, anche se negli ultimi tempi qualcosa sta cambiando. C'è una sproporzione fra ciò che di straordinario la città offre e la percezione che i cittadini hanno di questo tesoro».
Per esempio?
«Abbiamo forse le torri più belle del Mediterraneo, un ambiente che in uno sguardo mette insieme mare, pianura e colli: una città che si può ammirare da tanti punti di vista. Quando arriva un collega straniero lo porto sempre a Monte Urpinu: da lì si vede la sintesi della grande geografia in cui Cagliari si inserisce e l'intreccio fra città medioevale e contemporanea. Ogni volta tutti mi dicono: perché nascondete questa città, perché non la conosciamo?».
Incapacità di “vendersi”?
«Certo. Non è un caso che solo di recente sia stata attraversata dai flussi turistici, quasi sempre è stato un luogo di “toccata e fuga”».
Una delle tante contraddizioni.
«Sì, perché si rischia di percepirla come un posto estraneo. Al turismo, alle innovazioni, ai giovani. Prendiamo l'università: sembra che Cagliari non si accorga di avere 35 mila studenti. La sua popolazione scende, quella universitaria sale, mantendendo il valore e il peso della città. Ma che politica ha fatto per questi giovani, che tra l'altro saranno i futuri ceti dirigenti? Da un lato c'è una città viva, che progetta, ricca di fermenti culturali e dall'altra c'è quella mentalità bottegaia, statica, che non investe in queste potenzialità. Non farsi carico di ciò è una colpa grave. Pregiudica lo sviluppo».
C'è una ragione?
«Quando devo raccontare Cagliari al solito visitatore ricordo che è un capoluogo col suo primato economico e amministrativo ma non ha mai avuto grande espressione politica: non è un caso che le importanti leadership, che hanno avuto risalto nazionale tra presidenti della Repubblica e segretari di partito, siano nate nel nord Sardegna».
La debolezza della politica.
«Cagliari è stata, dall'Ottocento, il motore dell'innovazione della Sardegna ma si è concentrata sugli aspetti economici della medernizzazione senza avere un ceto dirigente in grado di imporsi su tutto il territorio, oltre quello locale. Lo testimonia anche l'attuale situazione: Cagliari ha “colonizzato” i centri che gravitano intorno ma non riesce a dialogare con le realtà di questa cintura urbana: non c'è, a titolo di esempio, una politica di concertazione o un progetto serio su grandi strutture e traffico. Come dire: c'è una incapacità di Cagliari a “fare sistema” con quello che gli ruota attorno, andare oltre i suoi confini municipali: gli è mancata una leadership in grado di creare e progettare. È la capitale dell'Isola, dovrebbe esercitare questa forza».
Ci sono anche colpe dei tecnici, cioé architetti, ingegneri, geometri. E pure degli intellettuali...
«Se parliamo di tecnici dobbiamo fare tutte le autocritiche del mondo ma il ragionamento è più ampio. Al solito collega che viene da fuori difficilmente mostro la città contemporanea, mi limito alle eccellenze: la parte medievale oppure le costruzioni ottocentesche; perfino quella del ventennio ha apparentemente più qualità della città del dopoguerra. Se faccio un confronto tra Ottocento e Novecento si nota che la Cagliari costruita da Cima - l'ospedale, la palazzata di via Roma, il municipio, le scuole Riva e Santa Caterina - sfruttava ogni occasione pubblica per trasformarla in un fiore all'occhiello urbanistico. Se confrontiamo questi edifici con i brutti prefabbricati delle scuole del cosidetto piano Falcucci ci accorgiano di quanto siano degradanti per la città e capiamo subito qual è la distanza che ci separa dalle opere del Cima e dalla sua scuola di architetti dal nostro presente».
Non c'è un responsabile del “brutto”?
«Penso che Cagliari sia distratta, poco interessata alla sua qualità. Il fatto che una facoltà di Architettura sia sorta solo una decina d'anni fa è il segno evidente di una incapacità. Mancando una scuola di pensiero per un tempo così lungo, Cagliari si è ridotta male. Ne faccio una questione di cultura, di consapevolezza, di civiltà».
Ma basta una scuola?
«No, ci vuole anche altro. Ovvero un sistema che tiene tutto unito, amministrazione pubblica, imprese, cittadini. Tutti devono convergere verso un unico obiettivo di qualità. È questa la carta che l'Occidente si gioca nel mondo globale, altrimenti saremo travolti dalla quantità che i paesi emergenti possono produrre verso di noi».
Oltre i proclami, servono le ricette.
«La mia ricetta è Cagliari città della cultura, della ricerca e dell'ambiente sostenibile. D'accordo è uno slogan ma per entrare nel concreto, dico come abbiamo lavorato quest'anno con la Facoltà. Quasi tutti i 900 studenti si sono buttati con passione sulla metropolitana di Cagliari. Un contributo di progetti e idee, di concerto col Comune, per riflettere sul trasporto collettivo, pensare come vivere la città, riqualificare un'incompiuta come piazza Matteotti».
Altre incompiute?
«Penso alla Manifattura Tabacchi, alla Casa dello Studente, alla riorganizzazione dei palazzi di Sant'Elia che da ghetto potrebbe diventare luogo di cultura investendo su quel paesaggio davanti al mare. Questo è il progetto il più impegnativo perché abbraccia non solo un ruolo architettonico ma in particolare quello sociale. Cagliari ha un debito enorme con Sant'Elia. Personalmente negli anni Settanta provavo un senso di colpa collettivo verso quel mondo lasciato in isolamento, abbandonato a se stesso. Se si facessero degli investimenti Cagliari rimarginerebbe una ferita umana, non solo architettonica».
Quali investimenti?
«Anziché tirar sù ancora vuoti casermoni e occupare brutalmente il territorio, serve dare nuova energia a quei metri cubi costruiti in maniera irresponsabile. La riqualificazione alza pure il valore economico dell'immobile».
Quale futuro, allora?
«Diciamolo chiaramente: Cagliari ha una fortuna sfacciata perché ha delle potenzialità pazzesche. E malgrado tutto è una città vivibile. Chi arriva da fuori non percepisce subito le stridenti contraddizioni, la vede piena di luce e pulita, con occasioni culturali che si moltiplicano. I giovani si stanno di nuovo impadronendo della città, è un importante segnale di speranza. Ma usiamo anche la lezione del passato per costruire il futuro».
Sergio Naitza