Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Un labirinto di contraddizioni

Fonte: L'Unione Sarda
11 aprile 2012


Antonio Sanna, attore e doppiatore, deve alla città la vocazione al teatro
«Mi ha aperto la mente, ma per migliorarmi sono dovuto andare a Roma»

Bisogna chiudere gli occhi, quando si parla con lui, e concentrarsi sulla voce. Timbro caldo, secco e suadente allo stesso tempo. Sembra di avere di fronte Antonio Banderas - dell'ultimo film di Almodóvar o nei panni di Zorro - oppure il magico Kenneth Branagh. Ma anche John Turturro, Ed Harris, Stanley Tucci.
Poi li riapri e ti appare il bel volto di un sessantenne, capelli brizzolati, sguardo gentile su tratti marcatamente isolani. È la doppia vita di chi fa (anche) il doppiatore professionista, una voce nell'ombra che entra nel corpo di un altro attore, se ne appropria e restituisce sfumature e dettagli del personaggio che vediamo su uno schermo.
Antonio Sanna si districa da tanti anni sui labiali dei colleghi, dalle star di Hollywood agli interpreti più dozzinali di serie televisive, con passione e competenza. Ma non è la sua ragione unica di lavoro, anzi oggi «con i ritmi da catena di montaggio e le logiche commerciali che ci sono nel doppiaggio - dice - l'idea di abbandonarlo, o almeno di distillarlo nel tempo, è sempre più vicina».
Perché lui, come ha sempre fatto da quando ha messo piede a Roma all'età di 24 anni, lasciando Cagliari che l'aveva accompagnato nell'adolescenza e giovinezza, di mestiere fa l'attore teatrale. Ma scrive anche testi drammaturgici che mette in scena curando la regìa (l'ultimo, l'inverno scorso, Infinito futuro al Teatro dell'Orologio), insegna recitazione, ha al suo attivo libri di poesia ( Canti di un passaggio ) e romanzi ( L'albero dei fichi bianchi e neri è stato finalista al Calvino), suona la chitarra e porta in giro col suo gruppo uno spettacolo musicale su De André e più di un premio nazionale troneggia nello studio.
Il suo è il classico esempio di nemo propheta in patria , nel senso che Cagliari con lui è stata piuttosto ingrata, solo una volta ha calcato le tavole cittadine e nient'altro. Pochino, in oltre trent'anni di carriera. Ma non se ne duole, Sanna, anche se gli piacerebbe tornare - con un recital, un testo, un dramma, un concerto - nella città alla quale, in fondo, deve la sua vocazione d'attore.
Aveva seguito un corso di recitazione con Petilli, Faticoni e Noè, anno 1973, al CIT (Centro d'iniziativa teatrale), esordio con Gli occhi tristi di Guglielmo Tell di Sastre, poi L'eccezione e la regola di Brecht e una parte consistente in Quelli dalla labbra bianche di Masala. La scintilla che gli fece scattare l'ardore per il palcoscenico, dandogli pure la forza di emigrare: perché Cagliari, davanti alle sue aspirazioni, alla sua sete di conoscenza e di confronto, di più non gli avrebbe potuto offrire.
«La città mi ha dato la possibilità di aprirmi, io venivo da un paese, Siligo e mi ero trasferito poi in un altro, Pula: sempre campagna e limitatezza. Per me arrivato a dieci anni, il capoluogo mi ha aperto un mondo, concesso una possibilità: quella di volare nella capitale e sfidare me stesso».
Com'era la Cagliari della sua infanzia?
«Abitavo nel Largo Gennari, che tutti chiamavano piazza Palestrina, sulla ferrovia sballottava la littorina che fischiava ogni volta davanti al passaggio a livello. Un muro recintava la piazza verso la via Scano e giù nella zona di San Giuliano era subito campagna, erbacce, il canneto sul canale, le zanzare. E le pecore, che arrivavano fino in piazza».
Un luogo di confine, di giochi spensierati.
«In realtà ero un ragazzino timido. Ma quando i miei genitori mi hanno comprato i pattini ho iniziato a scorrazzare per il quartiere. Era il 1960, poche macchine in giro».
C'era un altro posto della città che lo intrigava?
«Castello e la Marina, in assoluto. Lì c'erano un sapore e un odore diversi, percepivo in quel dedalo di vicoli e strade strette il profumo, sì proprio il profumo, dell'umidità. L'oscurità e la penombra mi sembrava nascondessero mille storie. Ai miei occhi di adolescente erano posti pieni di sorprese, ogni angolo mi faceva immaginare qualcosa».
Una sensazione che ritrova oggi?
«Un po' meno, l'omologazione ha limato molte differenze. Me ne sono accorto quando ho iniziato a frequentare l'Università. Andavo a piedi, mi piaceva attraversare i vari strati sociali e urbanistici della città. Il mercato di San Benedetto col vociare popolano, le viuzze di Villanova con i panni stesi, via Garibaldi e via Manno, borghesi e commerciali, poi su fino al vecchio Ospedale».
Tante contraddizioni in pochi chilometri.
«Ma io le contraddizioni le avevo in un paio di metri quando abitavo nel Largo Gennari. Tra via Tuveri e via Dante c'era un abisso, eppure erano attaccate. Suoni e voci differenti: via Tuveri povera, sguaiata; case vecchie con la storica palestra dell'Arborea per la lotta greco-romana, quasi una metafora di riscatto sociale; via Dante già moderna, negozi alla moda, un po' snob, con una borghesia che spingeva anche verso l'adiacente zona più degradata. Dove si percepiva una forma di violenza interiore, implosa, e una forma di volgarità più aperta che non avevo conosciuto nel mio paese, in cui la povertà era vissuta con più delicatezza e umanità».
Due mondi all'opposto.
«Questione anche di etnia. Il cagliaritano lo sentivo diverso nel modo di muoversi e di parlare, rispetto a me che mi portavo dietro tutta la cupezza del granito sardo. Loro erano più morbidi, pelle levigata. Una volta andammo al mare, non era ancora estate, con i miei cugini cagliaritani: loro erano in costume da bagno, noi vestiti. È un piccolo aneddoto, ma abbastanza indicativo».
E il mare?
«Io vengo dall'interno della Sardegna e con l'acqua ho avuto un rapporto di attrazione e diffidenza. Ho imparato a nuotare a 44 anni, in piscina, proprio perché volevo vincere questa paura. Figurarsi, al Poetto facevo il bagno nell'acqua alle ginocchia. Ci andavo obbligatoriamente con la famiglia, ombrellone e cestino al seguito: si arrivava molto presto per evitare la calura, quando il mare era piatto come una tavola. Poi, più grande, il Poetto ha significato la libertà: il tram con i sedili in legno e i finestrini sempre aperti e le “passeggiate” con la fidanzata».
Che immagine le richiama alla mente Cagliari?
«La vecchia parte della città mi ricorda il labirinto, un'immagine a me molto cara, perché il primo testo teatrale che ho scritto è dedicato a Icaro: l'isola di Creta diventa un labirinto perché per eliminare la paura diventi prigioniero di strutture che hai creato per difenderti. Ecco, la campagna dove sono nato è un labirinto naturale ma lo è anche Cagliari nei suoi fascinosi angoli di Castello, dove ogni volta che cerchi un'uscita fai una nuova scoperta. È in questa curiosa passione per il dedalo che devo a Cagliari la mia riconoscenza. Ad un incrocio ho svoltato verso il teatro, abbandonando il quarto anno di Medicina, e mi ha dato gli strumenti culturali di base e le ali della sfida per lasciarla e migliorarmi. Perché ad un certo punto hai bisogno di alzare l'asticella dell'ambizione. E mi dà fastidio vedere colleghi di teatro cagliaritani, di grande talento, ancora chiusi nel guscio della città».
E quando torna a Cagliari, qual è la sensazione principale?
«Tutto sommato è cresciuta decentemente, anche urbanisticamente, a parte lo scempio del Poetto e la cancellazione dei casotti, che erano un'anima di cagliaritanità. Poi è un posto a misura d'uomo, si vive bene, la consiglierei a un amico. Ma non per farci la carriera d'attore».
Visti da fuori, come sono i cagliaritani?
«La città non si è aperta molto in questi ultimi anni, non è cresciuta, non ha saputo fare un salto né culturale né turistico. E questo si riflette anche sulla cittadinanza. A volte il cagliaritano mi sembra un po' pedante, poco elastico, con una piccola forma di presunzione. Il ritorno del provinciale. Non lo merita, la città può e deve offrirgli di più».
Sergio Naitza