Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Avanza la fiction «europeista»

Fonte: La Nuova Sardegna
22 settembre 2008

DOMENICA, 21 SETTEMBRE 2008

Pagina 39 - Inserto Estate



Uno sguardo alle decine di filmati presenti in concorso Dalla scoperta dei cinesi alle conferme di inglesi e tedeschi



Il dopoguerra nei Balcani al centro di numerose opere

GIANNI OLLA

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CAGLIARI. Nella Babele audiovisiva del «Prix Italia» si rischia di accumulare spezzoni televisivi, stancandosi presto, con la mente e con gli occhi. E dunque tanto vale ricorrere o alle proprie passioni personali, o meglio alla ricerca di un senso che possa farci inquadrare la «Babele» dentro l’immaginario del nostro tempo. E, non a caso, la novità di quest’anno è stata la presenza di due nuovi paesi, la Cina e l’India, il cui immaginario popolare è ancora tutto da scoprire. Liquidiamo subito le tentazioni del “cinephile”. «La bellezza fatale» del giapponese Rintara Mayuzumi, attira l’attenzione per il tema: la vendetta di un giovane e bellissimo «onnagata» (attore maschio che nel teatro Kabuki interpreta i ruoli femminili); buona ambientazione e ottimo livello tecnico, ma dopo una buona mezz’ora si cade nell’ovvietà da «serialità televisiva». Più interessanti due film coreani, «Il mio maledetto amante» di Yi Eung Jin e «Scandalo nella vecchia Seul» di Han Joon-Seo (quest’ultimo filmato è ambientato negli anni Trenta, durante la resistenza al Giappone) che potrebbero essere classificati legittimamente come prodotti d’autore. Ipnotizzante è invece il documentario intitolato «Nostro pane quotidiano» della tedesca Zdf (la regia è di Nikolaus Geyrhalter) che racconta attraverso immagini, suoni e dialoghi, l’industria europea del cibo: ordinatissimi e asettici mattatoi per maiali o bovini, catene di montaggio in cui si vedono i pulcini “sparati” ordinatamente da un tubo dentro le cassette (e tuttavia pigolanti), immensi capannoni con centinaia di migliaia di galline, macchine immense che si occupano di grano, patate, frutta e verdura - imponendo il ricordo dei film di propaganda fascio-comunisti degli anni Trenta - ci persuadono che il cibo, produttivamente parlando, non è diverso da una piastrella in ceramica o da uno scaffale.
Questo è già un tema centrale della nostra epoca, che si riflette anche in un bel documentario di Channel Four (Gran Bretagna), diretto da Molly Dineen: «Le bugie della terra». Nel filmato si mette a confronto il romanticismo turistico/urbano e la vita vera degli uomini e degli animali che ci vivono e che producono cibo per le città. Disturbante.
Infine cronaca e storia, dal documentario giapponese sul Tibet - «Evoluzione in Cina: in cerca della ricerca tibetana», un bel reportage realizzato da Kanegawa e Sakamoto che racconta le due facce della modernizzazione imposta da Pechino - all’inchiesta di Channel Four sui «Bambini cinesi rubati», passando per il film italiano sul maccartysmo («I dieci di Hollywood» di Francesco Zippel).
Tralasciando i numerosi filmati o documentari, anche di buona qualità, che rincorrono il già detto e già visto (la guerra, lo sterminio degli ebrei), il nodo dominante - almeno per uno spettatore europeo - sembra essere quello di immaginare un continente pacificato dopo guerre fredde, calde o ancora tiepide, come quelle dei Balcani.
Due riflessioni sembrano contrapporsi: una prima, realistica, che felicemente, è rappresentata da due programmi Rai. Il primo, «La guerra infinita. Il Kossovo, nove anni dopo» di Riccardo Iacona (la prima puntata è andata in onda venerdì 18, dopo essere stata presentata, fuori concorso, l’altra sera di giovedì al Prix Italia alla presenza dello stesso autore al teatro Civico di Castello) indaga sulla precarietà di uno stato fantasma, sugli errori dell’occidente e della Nato, sul rischio di una statalizzazione quasi criminale. Il secondo, intriso di nostalgia («Il tempo del dopo: i Balcani di Pedrag Matvejvic»), diretto da Nene Grignaffini e Francesco Conversano, affida allo scrittore ex jugoslavo - così si definisce polemicamente - la ricostruzione di un tempo perduto tra Mostar, Sarajevo e Zagabria. Racconti e interviste alla gente comune che ha patito la guerra, senza schierarsi con la follia generalizzata, indicano, da un lato, il desiderio ormai impossibile di una Jugoslavia ancora unita e europea, come e più dell’Ungheria e della Bulgaria. Ma qualcuno avverte: purtroppo, se non ci fossero gli eserciti stranieri a sorvegliarci, ricominceremo a massacrarci.
Al capo opposto, due curiose fiction “europeiste”: la prima, serba, racconta di un gruppo di nobili che, nel 1848, dopo aver portato la Serbia a fianco dell’Austria per stroncare la rivolta unghererese, si godono un momento di notorietà, a Vienna, come garanti dell’impero. Non bellissima - anzi piuttosto accostabile alla nostre fiction più popolari, a base d’amore e di spada - è tuttavia l’indizio di un immaginario che vuole proporre la Serbia, dopo il fallimento di tutti i suoi sogni imperiali nei Balcani, come nazione storicamente europea.
Il secondo, «L’arcobaleno di Dio», di produzione ceca, diretto da Jiri Svoboda, è ambientato nel 1946, nei Sudeti appena “sgomberati” da ogni traccia tedesca. Un deportato varca la frontiera verso la propria casa, trova un nuovo regime poliziesco che ha sostituito i nazisti (ma questo è un falso storico: il colpo di stato comunista è del 1948), finisce per proteggere una donna tedesca che non ha voluto abbandonare la terra dove’era nata, nonostante le violenze dei nuovi governanti.
Ben ambientato e ben recitato, anche questo film lancia un ponte che dovrebbe cancellare il passato: nell’Europa si può stare tranquillamente assieme, senza i terribili confini di un tempo. Speriamo che la “fiction” s’imponga sul documentario.