Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Alfonso Antoniozzi, ecco la mia Traviata anni Sessanta

Fonte: L'Unione Sarda
15 giugno 2011

LIRICA. Il baritono-regista racconta l'opera che apre la stagione cagliaritana

«Non ho voluto dare una via d'uscita ai perbenisti»
Entusiasta, con una visione a tutto tondo del mestiere e la convinzione che la crisi sia una risorsa, e il problema la soluzione. Alfonso Antoniozzi, 47 anni, viterbese, è il regista ideale per la sospirata inaugurazione della stagione del Lirico di Cagliari. Se un anno fa, ad aprile, fu Wagner con “L'Olandese Volante” ad aprire il cartellone, ora spetta a Verdi, e alla “Traviata”, che torna dopo sette anni. Il debutto sabato alle 19, le recite sei. L'allestimento, dell'ottobre del 2010, è del Comunale di Bologna. Sul podio a guidare orchestra e coro, il giovane Giacomo Sagripanti, al suo debutto in città. Maestro del coro è Fulvio Fogliazza. Paolo Giacchero cura le scene, Claudia Pernigotti i costumi, Andrea Oliva le luci. Annamaria Dell'Oste è Violetta, Alejandro Roj Alfredo, Roberto De Candia, molto amato dal pubblico del Lirico, è Germont.
Ma Germont avrebbe potuto essere anche il suo amico Antoniozzi, che prima di darsi alla regia (questa è la terza, dopo un “Barbiere” e un “Don Pasquale”) è stato per 26 anni - ed è tuttora - un apprezzatissimo baritono buffo. In questi giorni si divide in due: al Lirico, assistito dal giovane Gualtiero Ristori, segue la ripresa dell'opera, a Spoleto canta nell'“Amelia al ballo” di Menotti, che ha inaugurato il Festival dei due Mondi. Un tour de force che solo l'età e l'entusiasmo gli permettono di reggere.
La sua, ci racconta durante una pausa delle prove, è una “Traviata” che ha fatto di necessità virtù. E allora niente scene e costumi ottocenteschi, meglio un'ambientazione più sobria e vicina a noi. Gli anni Sessanta. Gli anni in cui era ancora possibile che un padre preoccupato per la vita dissipata del figlio venisse in città dalla provincia, a implorarlo di cambiare vita per non disonorare la sorella in età da marito. Oggi, in un tempo che conosce il prezzo di tutto e il valore di niente, farebbe sorridere. «Molti pensano che l'opera lirica sia un museo e debba ripetere all'infinito se stessa», dice Antoniozzi. «Ma l'opera è eterna, perché eterni sono i sentimenti che rappresenta. Io, raccontando un periodo che ci riporta a Fellini, e al pre-Sessantotto, dò voce a una borghesia trasgressiva cittadina, alla quale contrappongo la provincia, dove tutto arriva 25 anni dopo. A Parigi è possibile far festa con la più grande libertà, in Provenza si critica tutto questo».
Provinciali, un po' gretti, restii ad accogliere le diversità, incapaci di andare oltre l'etichetta. «Come Germont, che vive secondo quello che la gente pensa. Alfredo avrebbe un tentativo di ribellione.. ma quando scopre che è Violetta a mantenerlo ha un guizzo di perbenismo e rientra nell'alveo familiare».
Ma poi alla fine, tornano da lei..
«Sì, in articulo mortis. Siamo sicuri che sarebbero stati così generosi e pentiti se non fosse stata in fin di vita? Io non volevo dare una via d'uscita alla buona società borghese. Volevo raccontarla in maniera diversa. E l'ho fatto, immaginando che Violetta immagini il ritorno di Alfredo, che il suo ultimo desiderio non sia esaudito. E che i due arrivino quando ormai è spirata. Mi sembrava un diavolo di invenzione, ma rileggendo Dumas ho scoperto che il romanzo finisce proprio così».
Nella “Traviata” di Antoniozzi c'è Fellini, il Kubrick di “Eyes Wide Shut”, ma c'è anche lo spirito di Verdi. «Non dimentichiamoci che quando compose l'opera viveva le sofferenze per le chiacchiere dei perbenisti sulla sua storia con la Strepponi. Per questo usa “La traviata” come manifesto di condanna di un certo tipo di buon pensiero della società. «La prima fu un clamoroso insuccesso, e non solo perché Violetta non aveva l'aria di una donna afflitta dal mal sottile. In realtà non accettarono la denuncia che gli era stata sbattuta in faccia. Oggi Violetta avrebbe l'Aids».
Che cosa non deve essere una regia?
«Non deve essere un pretesto per mandare messaggi che non siano nella partitura, non deve “servirsi di”, ma servire. Non deve essere mai illogica. Un'idea, bislacca o meno, non può sbattere contro la partitura. Chi dirige un'opera deve innanzitutto raccontarla con chiarezza. Poi può aggiungerci tutti i piani di lettura che vuole. Anche perché il regista finale è sempre lo spettatore. Lui dà senso a quello che io faccio».
Lei non ama i melomani...
«Io mi arrabbio con i cosiddetti appassionati, perché sono ciechi. Preferisco gli innamorati. Sanno prendere da ciascuna opera ciò che gli serve. Nell'arte non esiste la verità assoluta, gli artisti sono dita che puntano verso la luna, io posso parlare a cento persone ma non riuscirò a parlare ad altre cento sensibili ad altri discorsi».
Lei è impegnato persona in questa battaglia per la salvezza dei teatri lirici. La sua soluzione?
«Dimenticarsi delle forme museali. L'arte, se ripete se stessa, è morta, non si possono più fare certe cose, costano troppo, ma questo può essere una risorsa».
Si spieghi...
«Potremmo entrare nell'ottica della riproposizione delle opere in repertorio. Oggi un nuovo allestimento fa otto recite e va al macero, per me gli spettacoli dovrebbero essere riproposti almeno finché non viene ammortata la spesa. Io lavoro spesso ad Amburgo. Il teatro ha dal 1974 in cartellone “L'elisir d'amore” di Ponnelle! Siamo stati abituati male. Bisogna davvero cambiare tutto. Rimettere in moto i laboratori dei teatri, mettere fine al meccanismo scellerato degli appalti, creare professionalità stabili. Solo così si abbattono i costi. Mentre parliamo, nei teatri del mondo ci sono almeno venti opere italiane in cartellone. Tutti ci invidiano la lirica, potremmo essere una miniera d'oro, e invece siamo visti dalla classe politica come un problema. Sa che dico? Fateci fare il nostro lavoro, date il teatro ai teatranti e toglietevi dai piedi. I teatri lirici fanno il tutto esaurito, se potessimo pianificare ogni dieci anni e non dipendere dalle diverse amministrazioni faremmo miracoli. Il fatto che stiamo ancora a galla dimostra quanto siamo bravi a fare questo mestiere».
Maria Paola Masala