Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Aggrappati alla rete aspettando il «papier»

Fonte: La Nuova Sardegna
8 aprile 2011



Primo giorno nell’ex caserma, tutti tranquilli per avere il permesso di muoversi in Europa




GIUSEPPE CENTORE

CAGLIARI. Si aggrappano alla reti di quella che un tempo era la caserma dell’Aeronautica e chiedono solo di parlare. «Monsieur, vous avez cigarettes?». Bruciati dal sole e dalla miseria, i tunisini da mercoledì sera rinchiusi nella mura della caserma si sentono come bestie in gabbia. Vorrebbero andare via e chiedono quale è la strada per «Rome ou Naples». Sorridono quando capiscono che la risposta sta per arrivare, ma il loro sguardo si spegne quando indichi l’aereo o il «ferry». Ancora acqua, quella maledetta acqua che è stata la loro unica compagna da settimane: la traversata, l’attesa, il trasferimento sul traghetto e anche lì la lunga attesa prima dello sbarco. Non sanno che prima di lasciare la Sardegna dovranno aspettare ancora qualche settimana. Tempi burocratici per il rilascio del famoso «papier», che tutti sognano, come se fosse il passaporto per il paradiso. E quando ieri sera la Questura comunica ufficialmente il via alle procedure di rilascio, l’urlo liberatorio li fa sentire già liberi. Non sarà così, ma a queste braccia giovani e forti, basta stare lontani dal loro amato-odiato paese. «Monsieur, posso fare una telefonata a casa? Mio figlio sta male». Ismail ha 29 anni ma ne dimostra 50, è di Kairouan e quando parla della moschea e del bazar il suo volto si illumina. Prende il piccolo telefonino e parla rapidissimo «Sardaigne, Sardaigne». Il figlio sta bene, dice ha solo dodici mesi. Chissà se è vero, e se anche fosse, chissà se mai lo rivedrà. Come lui altri connazionali passano la prima giornata di non-reclusione nel centro di viale Elmas. Le disposizioni della Prefettura, applicate con intelligenza e una giusta dose di umanità dalla Questura, in campo a dirigere le operazioni lo stesso vicario Giuseppe Gargiulo, riescono a creare un ibrido sinora vincente: un carcere temperato, dove non è consentito uscire, ma soprattutto è obbligatorio rientrare, pena la perdita del famoso papier. Per averlo prima possibile i migranti sono disposti a “fare i buoni”, ma forse stanchi da una odissea che dura da settimane, non avrebbero neppure le forze per creare problemi.
L’accoglienza. La macchina della Protezione civile si è messa in moto con una certa difficoltà. Mercoledì sera è stato servito un pasto rapido: pastasciutta, formaggio, frutta. Ieri mattina colazione con succhi di frutta e merendine, ma non è il vitto a creare problemi, semmai l’inadeguatezza della struttura, nella quale sono state scaraventate centinaia di persone senza una logica, senza alcun tipo di preparazione logistica, fosse pure una panchina. Spiazzi brulli e abbandonati, erbacce alte due metri, magazzini sigillati, mura tutt’altro che solide, se non altro perché hanno più di 60 anni. I migranti hanno cercato di passare il tempo, ma al massimo possono radunarsi in gruppetti e parlare al telefono con i parenti o improvvisare brevi partite a calcetto.
La sicurezza. Carabinieri, Polizia, Finanza, Vigili del Fuoco. Tutti dentro la caserma, pochi nel perimetro esterno. I contatti sono obbligatoriamente ravvicinati, ma per adesso la situazione è calma. Le fughe, gli allontamenti temporanei, sono durati poche ore. E del resto, dove possono andare? I mediatori culturali della Prefettura e la Questura li hanno informati delle buone notizie: avranno il papier, ma devono stare dentro.
Le esigenze. La macchina della solidarietà ritarda a mettersi in moto: tutto deve passare per i rigidi controlli della Prefettura. Eppure basterebbero sapone, scarpe, detersivo per lavare i pochi stracci che rappresentano i loro abiti e qualche asciugamano. Il presidente di Sardegna Solidale, Giampiero Farru ripete di essere pronto a intervenire anche oggi, «ma ci devono dare l’autorizzazione; noi non possiamo neppure entrare in quella struttura, fosse anche per distribuire acqua e bibite. Il tempo costringerà le istituzioni a rendere umano quel luogo. Settecento persone rinchiuse in gabbia per giorni interi senza far nulla prima o poi scoppiano. Hanno bisogno di una valvola di sfogo, fosse un pallone o una radiolina. I prossimi giorni saranno decisivi, ma non possiamo essere noi a decidere che fare: è una scelta del governo e dei suoi organi periferici».
La politica. La scelta di viale Elmas non è proprio piaciuta alla Regione. Anche ieri il presidente Cappellacci ha espresso in un comunicato tutta la sua contrarietà all’operazione, ricordando che «nel corso delle riunioni svolte a livello locale e nazionale abbiamo chiesto che fossero rispettati due tipi di esigenze: l’accoglienza umanitaria e la sicurezza dei nostri concittadini. Contesto la scelta di un sito non rispondente nè all’una, nè all’altra indicazione e non adeguatamente vigilato». Critiche anche dall’associazione dei comuni: «Avevamo concordato una distribuzione in piccoli gruppi in diversi centri». Oggi i parlamentari del Pd visiteranno la caserma.

 

I primi gesti di solidarietà

Racconti drammatici e speranze dentro un recinto



Abbiamo visto tanti nostri amici morire tra le onde, magliette e cappotti sparsi sull’acqua. Noi siamo vivi, ci serve una scheda telefonica per farlo sapere ai nostri parenti

MONICA MAGRO

CAGLIARI. «Ci hanno trattato malissimo durante il viaggio da Lampedusa a qui, ci hanno rubato i soldi, eravamo ammassati e dormivamo tutti nello stesso posto». Questo raccontano i tunisini dopo la prima notte trascorsa a Cagliari nell’ex caserma dell’Aeronautica.
«Ci hanno preso in giro, non ci dicevano dove ci stavano portando, eravamo stipati nel parcheggio auto di una nave». «Abbiamo rischiato di morire», dice un altro e mostra i filmati fatti da lui come da altri con i cellulari. Le immagini raccontano la prima traversata lunga 25 ore, dalla costa nordafricana a Lampedusa. Si vede un barchino circondato solo da mare, tante facce che dietro un sorriso nascondo la paura di non arrivare vivi.
«Abbiamo visto tanti nostri amici morire in mare, cappotti e magliette dispersi nell’acqua», racconta Mohamed, 25 anni, occhi grandi, che nonostante tutto è contento di poter raccontare ciò che ha vissuto. «Voglio sentire mia figlia», dice Nabil, 30 anni. «Ero fidanzato con una donna italiana - spiega - abbiamo avuto una bambina, ora non me la fa vedere». Tutti però dicono di voler andare in Francia, almeno riuscirebbero a comunicare bene. Lo ripete Mohsen, 28 anni che dice: «Paris, Paris», ma forse non sa che la Francia non li vuole.
Hanno tanta voglia di parlare, comunicano attraverso la recinzione: «Libertà, libertà». Chiedono un aiuto: «Una sigaretta, vestiti, vestiti, scarpe» e ci mostrano di non aver neanche un cambio per togliere i vestiti che hanno addosso da tre giorni, c’è chi non ha neanche un paio di scarpe ai piedi. Riescono a racimolare qualche sigaretta grazie alla generosità di alcuni abitanti della zona, dopo qualche insulto da parte di un paio di automobilisti.
Arrivano i primi cagliaritani con sacchi carichi di viveri, qualcuno promette abbigliamento e intanto porta succhi, pane, merendine e frutta. C’è chi porta un uovo di Pasqua: «È il minimo che possiamo fare, spero che riescano a passare una buona Pasqua», dice con commozione un cagliaritano. Loro prendono, ringraziano e cominciano a mangiare dividendo tutto equamente.
«Voglio una fidanzata sarda, non tunisina», scherza Nabil, 28 anni, con i cronisti. Maniche corte e jeans, molti masticano un po’ di italiano. Un gruppo gioca a calcio con un pallone ricevuto dalle forze dell’ordine, altri guardano la partitella sotto il sole cocente. «Voglio una sim, voglio una scheda», ripetono in tanti. Vogliono rassicurare le famiglie rimaste in Tunisia. Apparentemente sono in buona salute, «Saponette, detersivi», chiedono: non possono lavarsi da troppi giorni.
Hanno deciso di scappare dal loro paese. «non facevamo niente, non c’era lavoro, non c’è più libertà», racconta Mongi, sorriso smagliante e viso affaticato, forse dal viaggio. Quando sente parlare di lavoro, qualcuno spiega di aver già intuito che la Sardegna forse molto può offrire ma non un posto di lavoro. C’è chi parla della permanenza in Sardegna e chi è pronto a scommettere che non dureranno qualche giorno di più. «È meglio rimanere qua, senza fare casino, senza scappare, almeno siamo tranquilli», spiega uno di loro. Mentre alcuni rimangono attaccati alla rete, aspettando forse qualche altro aiuto, c’è chi va a mangiare negli spazi organizzati per offrire loro almeno un pasto caldo.