Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

«Fatta giustizia ma non ho più Chicco»

Fonte: L'Unione Sarda
11 ottobre 2010

Parla Marcella Aru, la moglie del pescivendolo di San Benedetto morto di leptospirosi

Il reato è prescritto, resta il diritto al risarcimento dei danni
Parla Marcella Aru, la moglie del pescivendolo del mercato di San Benedetto ucciso anni fa dalla leptospirosi.
Matteo ha gli stesso occhi del padre, lo stesso sguardo. «È grazie a lui se sono riuscita a sopportare il peso di questo dolore, se non ci fosse stato mio figlio sarei morta quel giorno insieme a Chicco». Chicco in realtà si chiamava Enrico. Enrico Corda. Aveva 30 anni e tutta la vita davanti, perché così si dice quando qualcuno ci lascia troppo presto, quando si sa che si dovrà sopportare la sua assenza per un tempo infinito.
Enrico aveva un box del pesce al mercato di San Benedetto, una bella villetta a Pirri costruita con pazienza e sacrifici, una moglie che non vedeva che lui. E un figlio, Matteo appunto. Che quando lui se n'è andato, il 25 settembre del 2001, aveva un mese di vita. «Del padre sa tutto, cosa gli piaceva, come rideva, le sue battute. L'ha conosciuto dalle foto e dai miei racconti. E poi gli assomiglia tantissimo, a volte mi sembra di vedere lui». Oggi Marcella Aru ha 36 anni. È una bella ragazza. Inquieta e combattiva. Perché Marcella nella sua vita ha dovuto combattere, tanto, troppo. Per crescere il figlio da sola, certo. Ma anche perché i responsabili dell'assurda morte del marito pagassero. «Chicco è stato stroncato dalla leptospirosi, una malattia trasmessa dai topi attraverso le feci e l'urina, pochissimi giorni e non c'era più». Un male da medioevo, quasi scomparso nell'opulento Occidente. Eppure, in quel 2001, tra i box del mercato di San Benedetto, circolavano indisturbati ratti da mezzo chilo, che nel sangue portavano proprio quel virus subdolo e infame. «Stava male da una settimana, era giallo, si sentiva debole, lui che era sempre pieno di energia, uno sportivo. L'ho convinto ad andare in ospedale per farsi vedere, gli hanno detto che aveva l'influenza, prescrivendogli della tachipirina. Chi pensava alla leptospirosi? Nessuno. Tre giorni dopo la situazione è peggiorata, siamo tornati al Santissima Trinità, la notte stessa è morto».
L'infezione non aveva contagiato solo lui: in ospedale finirono otto persone, altre quattro risultarono positive. Tutte avevano avuto a che fare col mercato. Tra loro c'era anche Stefano Milia, amico e collega di Enrico. «Se è salvo lo deve a Chicco, Stefano si è sentito male qualche giorno dopo e lo hanno curato come dovevano. Non l'ha mai scordato: è uno dei pochi che mi è sempre stato vicino in questi anni». L'inchiesta della Procura di Cagliari portò alla sbarra due persone, Giovanni Musu e Sergio Spiga. Il primo era il direttore del mercato, il secondo il dirigente comunale dell'Annona. A loro sarebbe toccato il compito di far rispettare le norme igieniche tra i box, invece lì era una fogna. «Tutti sapevano che c'erano ratti grossi così al mercato, saltavano fuori dai cassetti, dappertutto. Invece sono intervenuti solo quattro giorni dopo la morte di Chicco, quando nel frattempo i topi avevano già mangiato persino i fiori che i colleghi avevano lasciato sul suo bancone per ricordarlo».
La giustizia ha fatto il suo corso, seppur molto, troppo lentamente: condanna sia in primo che secondo grado. Otto mesi a testa. Per omicidio colposo. Poi, due giorni fa, è arrivata la Cassazione: reati prescritti. Ma non è stato un colpo di spugna, anzi. La Suprema corte ha confermato la condanna al risarcimento dei danni per le parti civili. Significa che ha riconosciuto una volta per tutte che per la morte di Enrico ci sono dei responsabili, con nomi e cognomi. «Sinceramente non ho mai chiesto che queste persone finissero in galera, ma solo che si individuassero i colpevoli di quanto accaduto. E questo è successo».
Ora la battaglia è finita. È vinta. Ma per Marcella non è il punto e a capo. Mai volterà la pagina che ha fermato la sua esistenza. «No, non posso dimenticare, per me sarà sempre un capitolo aperto». E poi ci sono ancora i risarcimenti: «Quando Enrico è morto sono dovuta ripartire da zero, lui era la mia vita, stavamo insieme da dieci anni, ci eravamo sposati da poco più di un anno. All'improvviso mi sono ritrovata senza soldi, con un bambino di un mese, ho dovuto vendere la casa, ho lavorato, ma sempre saltuariamente, è stata dura, durissima. Oggi sono disoccupata, ho 36 anni e un figlio: sono fuori mercato, nessuno mi dà lavoro». In questi anni lei e Matteo hanno incassato solo i centomila euro della provvisionale stabilita dai Tribunali penali. Ma hanno diritto a molto di più. Ad ottenerlo ci penseranno i suoi avvocati Annamaria Busia e Francesca Calabrò. Soldi che serviranno per andare avanti, per costruire un futuro meno faticoso. Anche se a Matteo nessuno restituirà mai quel padre che non ha fatto in tempo a conoscere. «Questo è il suo cruccio più grande, me lo dice sempre: mamma, mi piacerebbe tanto riuscire a ricordarmelo papà».
MASSIMO LEDDA

10/10/2010