Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Aree di crisi, siamo la maglia nera

Fonte: La Nuova Sardegna
25 agosto 2010

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MERCOLEDÌ, 25 AGOSTO 2010

Pagina 2 - Fatto del giorno


Colpite le principali imprese di tutti i settori produttivi più significativi


L’AUTUNNO CALDO Da uno studio del ministero dello Sviluppo nessuna illusione: il peggio deve ancora arrivare

GIUSEPPE CENTORE

CAGLIARI. La coda agostana è stata calda, settembre non sarà da meno, il peggio arriverà a ottobre. Non si tratta delle condizioni meteo, ma di quelle del lavoro, dell’occupazione. Lasciando da parte le anime belle che parlano di ripresina in qualche settore o di sostanziale tenuta in altri, una tenuta che come si vedrà dalle cifre è su valori vicini allo zero, da non portare in lode, la verità è che l’autunno si preannuncia bollente. Troppe le vertenze aperte a cui non si riesce a dare soluzione, tanti, molte migliaia i lavoratori che rischiano il posto o che avranno la quasi certezza di non poterlo trovare alla ripresa autunnale. La miglior riprova della gravità del momento è data dal silenzioso ma puntualissimo lavoro che le forze dell’ordine, in primo luogo le Digos delle Questure, stanno facendo, su evidenti disposizioni del Viminale, su tutte le conflittualità occupazionali, grandi o piccole che siano; un monitoraggio attento e costante per prevenire episodi di intolleranza o di violenza. Mai come in questo periodo l’attenzione è massima, perché i prossimi mesi saranno difficili; non lo dicono solo i responsabili dell’ordine pubblico e i sindacalisti, ma lo stesso governo, che nelle scorse settimane ha completato la mappa delle aree di crisi di tutti i settori industriali del paese: sono numeri da far paura. Al ministero dello Sviluppo economico (che ancora soffre della mancanza di un responsabile politico dopo le dimissioni di Scajola) sono 180 i tavoli di confronto aperti con imprese, istituzioni e parti sociali per risolvere gravi situazioni di crisi; quasi 400mila i lavoratori interessati, in tutti i settori produttivi: dalla chimica alla siderurgia, dall’alimentare al tessile, dall’abbigliamento all’elettronico. La mappa del ministero dello Sviluppo è desolante, e non lascia fuori nessun territorio. Naturalmente le regioni più colpite sono il Veneto, la Lombardia, il Piemonte, il Lazio e la Campania, ma solo perché lì è presente la maggior parte del sistema industriale del paese. Se si facesse il raffronto in percentuale su residenti e prodotto interno lordo, (cioè la ricchezza prodotta globalmente), la Sardegna sarebbe al primo posto. Il perché è presto detto: da noi non sono in crisi alcuni settori produttivi in determinate zone, ma tutti i settori nelle zone dove esiste un tessuto industriale. Consoliamoci prima coi dati nazionali. Nel nostro paese su 686 sistemi locali (cioè aree nelle quali una filiera produttiva ha la prevalenza sulle altre), 113 risultano essere in elevata crisi, e 136 in crisi medio-alta. Delle 113 in elevata crisi, 35 sono nel sud e 33 nel nord-ovest. Delle 35 del sud, 6 sono in Sardegna: Cagliari (petrolchimica), Carbonia (metallurgia), Macomer (tessile), Nuoro (petrolchimica), Sassari (petrolchimica), Siniscola (tessile).
Lo studio del ministero ottiene questi dati incrociando i dati sulla cassa integrazione ordinaria e speciale, la mobilità in deroga, l’indice di disoccupazione, la densità delle imprese in procedura fallimentare, la variazione del tasso di cessazioni di attività. Alla fine si ottiene un indice di crisi occupazionale. La Sardegna può fregiarsi del titolo della Regione messa peggio, se non altro perché i settori industriali in crisi sono gli unici presenti. Scorrendo la lista dei 113 sistemi locali in elevata crisi, al primo posto c’è Torino, con un indice di crisi pari a 41,6, seguito da Milano, Biella e Busto Arsizio. Carbonia è al 13º posto con 18,4, Macomer al 18º con 16,2, più indietro gli altri. La differenza, evidente, è che in quelle aree, o a Bergamo, Vicenza, Casale, o Copparo dell’Emilia per fare un esempio, ci sono anche altre realtà che se non tirano quantomeno tengono, da noi no. Ecco perché la crisi è più grave, confermata anche da altri numeri: il valore aggiunto nell’industria stabile a 46,9mila euro dal 2001 al 2007; il tasso di disoccupazione che scende dal 13,9 del 2001 al 12,2 del 2008 (in Italia passa dal 9,1 al 6,7); il tasso di natalità delle imprese passato da 8 del 2001 a 7 del 2007. Unico dato positivo la capacità di esportazione (ma drogata dalla petrolchimica) passata da 8,3 del 2001 a 14,1 del 2007 (il doppio in Italia, come il dato sulla spesa in ricerca e sviluppo, praticamente assente.