Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Cuoio, sughero e sogno: in mostra al Ghetto Mascaras, i volti di scena

Fonte: L'Unione Sarda
26 luglio 2010

A Cagliari le realizzazioni di Giampietro Orrù


Masca” significava strega, nel remoto latino medievale. E le “Mascaras” di Giampietro Orrù, oggetti di scena nati in funzione degli spettacoli della compagnia “Fueddu e gestu”, non smentiscono quella lontana etimologia. Allestiti sino al 30 luglio al Ghetto di Cagliari i “finti volti” sincretizzano nei loro lineamenti fattezze di rapaci e mufloni, di cervi e cinghiali, di esseri favolosi e orridi in cui si rintraccia sempre qualcosa della razza umana.
Scolpiti nel sughero, nel legno d'arancio e di pero, forgiati col cuoio e la pelle,sono attraversati da grosse cuciture e spesso avvolti da molli tessuti danzanti. Corrispondono ai personaggi dei lavori teatrali ma rivendicano, in un allestimento scenografico, una loro prepotente individualità. Si è parlato dell'uso delle maschere nella tragedia greca, nella serata inaugurale della mostra. A raccontare la loro importanza è stato il regista Walter Pagliaro che al pubblico ha raccontato il fascino e il mistero del suo “Alcesti mon amour”, messo in scena al Teatro Civico di Cagliari nel corso della rassegna “La notte dei poeti” targata Cedac. Ai tempi di Euripide, gli attori erano tutti maschi e impersonavano anche dieci parti. La maschera faceva loro da cassa armonica, posata sui volti dipinti di bianco o di grigio. C'è una maschera africana Songe che nelle sue linee geometriche ricorda molto da vicino quella dei mamuthones. Evidente, la genesi sacrale di un arnese che gli studiosi fanno risalire ai riti dionisiaci e mantiene intatta la sua caratteristica di forma vivente capace di operare una metamorfosi su chi la indossa.

Le “Mascaras” di Giampietro Orrù si riportano nelle loro asimmetrie anche ai bronzetti nuragici e utilizzano ogni possibile reperto naturale raccolto in campagna o messo a disposizione dagli amici pastori. Sterpi d'oleandro, vertebre di bue, mandibole d'ovino, corna di capro. E radici, corde impeciate, frange, noci di cocco, cartapesta dipinta. E i bastoni destinati ai bambini sono sottili rami di palma disossati dalla lama del coltello e disegnati dal fuoco.
Le strane creature che sembrano in grado di staccarsi dai loro supporti e camminare per il mondo tangibile, sono molto ben fotografate da Beniamino Pili sul catalogo edito da Soter con un testo di Giuseppina Cuccu. Nello scritto si accenna a «un dialogo ininterrotto tra conosciuto e sconosciuto, tra rassicurante ed angosciante, tra vita e morte». Certo, nel tempo il popolo mutante creato da Giampietro Orrù è diventato una presenza autonoma, una produzione d'artista .Ma l'autore, e regista, ne conferma la matrice primigenia: ognuna delle maschere ha una funzione drammaturgica ed è legata a un titolo del gruppo di Villasor. Martedì scorso , nella terrazza del Ghetto, l'attrice e danzatrice di flamenco Maura Grussu e i musicisti Veronica Maccioni, Ottavio Farci e Carlo Plumitallo hanno messo insieme i frammenti di un repertorio incentrato sul legame tra parola e gesto. Due elementi amplificati dalla forza proteiforme della maschera. Diaframma che può confondere le identità.
ALESSANDRA MENESINI

26/07/2010