Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Reportage, il viaggio nel tempo eterno

Fonte: La Nuova Sardegna
19 luglio 2010


SABATO, 17 LUGLIO 2010

Pagina 35 - Inserto Estate

Cagliari, nella Sala delle Volte dell’Exmà si inaugura questa sera l’esposizione «Più reale del reale» di William Eugene Smith

Le spedizioni in Colorado, Giappone, Spagna e una serie dedicata ad Albert Schweitzer

GIANNI OLLA

William Eugene Smith, nato nel 1918 a Wichita, in Kansas, e morto a soli sessant’anni, a Tucson, in Arizona, è stato tra i più grandi fotografi del dopoguerra. La collaborazione con Life ha finito per incasellarlo nella categoria del fotogiornalismo, ma la bella mostra, «Più reale del reale», che si apre stasera nella sala delle Volte dell’Exma a Cagliari ci dice qualcosa di più. Non a caso, la rivista americana coniò per i suoi lavori il termine di «Photographic essays».
Voluta e promossa dall’assessorato alla Cultura del comune, organizzata da Camù, curata da Enrica Viganò di Admira e dalla fondazione La Fábrica di Madrid, l’esposizione cagliaritana - unica tappa italiana - presenta stampe dello stesso Smith che arrivano dal Center for Creative Photography di Tucson in.
Le sezioni in cui è divisa la mostra sono sei, a cui va aggiunta una miscellanea che riguarda gli anni di guerra ed una foto, bellissima, di alcuni minatori del Galles.
Il primo grande reportage, «The country doctor», è del 1948 e fu realizzato in Colorado seguendo per alcune settimane la pratica medica di Ernst Ceriani. La sintonia con il clima del New Deal, i cui fotografi scoprivano o riscoprivano l’America nascosta della gente comune, si appoggia anche, in certe posture a metà strada tra il realismo e l’eroismo romantico, ai film non-western di John Ford.
In parallelo, ecco un’altra serie del 1951, «The nurse midwife» (ovvero «La levatrice») pedinata nel South Carolina dove esercita la sua professione, fin dalla fine degli anni Trenta, attraverso un progetto appunto rooseveltiano. Anche in questo caso, documentazione sociale (sia la levatrice che le partorienti sono di colore) e umana, s’intersecano in questa ricerca di realtà poco o nulla vista.
La terza serie, legata ancora alle tematiche umanitarie, è dedicata ad Albert Schweitzer, medico e umanista alsaziano che, con il suo lavoro nell’Africa equatoriale francese, vinse il premio Nobel per la pace nel 1952. Smith lo conobbe a New York e, con grandi difficoltà, dovute alla diffidenza di Schweitzer nei confronti della pubblicità mediatica, riuscì a pedinare, in Africa, le sue attività di medico e organizzatore sociale. Fu l’ultimo lavoro per «Life». Il semplice reportage - sia pure aggirato dall’evidente empatia per i personaggi e i luoghi in cui si trovava ad operare come fossero delle patrie adottive - non bastava più al fotografo e le due serie più tarde esposte a Cagliari, Pittsburg (1956) e Minamata (1972), testimoniano una libertà compositiva assoluta, unità alla ricerca spasmodica dell’effetto scenico drammatizzante.
In «Pittsburg», ad esempio, evoca la città dell’acciaio attraverso una danza di morte di un operaio che cerca di spegnere un incendio improvviso.
In «Minamata», il tema sono i morti e i malati della città nipponica in cui ci fu, per circa trent’anni (dal 1956 al 1976), il contagio dal metilmercurio di una fabbrica chimica che scaricava i rifiuti a mare, facendo entrare i veleni nella catena alimentare marina, così importante per i giapponesi. Nelle foto di Smith, poi pubblicate in un volume, da una parte c’è lo spettacolo della sofferenza esibita di un malato terminale a cui fanno corona fotografi e giornalisti, mentre l’intimità ha un contorno quasi pittorico: la madre che, in un chiaroscuro molto contrastato, abbraccia il figlio moribondo. Il modello è peraltro simile a quello di una delle più celebri fotografie di Smith, «La veglia funebre», in cui le prefiche attorniano il corpo del morto, con una disposizione spaziale che evoca i tanti compianti del Cristo morto quattro-cinquecenteschi.
Questo scatto, che sembra un ricalco di Zurbaran in abiti moderni, è anch’esso presente all’ExMa nella sezione più preziosa, «Spanish Village», il reportage che, per conto di Life, il fotografo costruì nel 1950 nel paesino di Deleitosa, in Estremadura, vale a dire la regione più povera e più selvaggia della Spagna.
Il 1950 fu un anno chiave per il paese iberico, isolato dal contesto europeo e mondiale dopo la sconfitta del nazifascismo. Poco si sapeva di ciò che era successo dopo la fine della guerra civile, se non che la miseria prosperava. Fu appunto nel 1950, in piena guerra fredda, che gli Stati Uniti si avvicinarono cautamente al regime franchista, disposti ad aiutare la modernizzazione del paese senza più mettere barriere politiche. La scelta di «Life» era dovuta anche a questa circostanza, ma è pur vero che, negli stessi anni, la timida apertura del paese attrasse altri artisti, da Orson Welles al nostro Marco Ferreri.
Eppure, dopo aver viaggiato per le città, Smith si fermò in Estremadura per catturare una sorta di Spagna “eterna”, almeno sul piano mitologico, che mette insieme il folclore di un Merimée con la miseria di «Las Hurdes»; i ricordi sbiaditi della Guerra Civile scritti sui muri e il senso religioso dei suoi abitanti. Insomma un viaggio nel tempo eterno che assomiglia ai racconti e alle fotografie di viaggio di coloro che percorrevano la Sardegna fino ai primi anni Sessanta. Non tutto è vero, ma forse chi ha visto la Spagna negli anni Settanta si ritroverà in molte di quelle immagini.