Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Mister Jonathan, spazzino al Poetto

Fonte: L'Unione Sarda
19 luglio 2010

Mister Jonathan, spazzino al Poetto

In quel primo sabato di luglio Stravanàto era in coda già da parecchi minuti e proprio non ci si muoveva. Tutti avevano scoperto che è bello stare in spiaggia fino al tramonto e tutti avevano deciso di andar via nello stesso momento.
All'altezza della quarta fermata era riuscito a saltare posizioni fino al semaforo del Lido, entrando contromano nel piazzale dei caddozzoni e sbucando all'altezza del supermercato, ma dal curvone in poi la fila era obbligata.
Le code, i semafori, i sensi unici e i divieti di sosta non gli erano mai andati giù. Alle Poste o in banca riusciva a trovare la soluzione iniziando a zoppicare vistosamente duecento metri prima dell'ufficio per poi saltare la fila in mezzo alle compassioni dei più e alle perplessità di pochi. All'uscita borbottava fra sé il suo «stravanàto!» mentre si allontanava con la stessa zoppìa. Era per quel motivo che Stravanàto aveva quel soprannome.
Il suo Fiorino era un modello con il cassone da carico posteriore aperto e, al momento di riprenderlo al parcheggio, ci aveva trovato dentro Jonathan che tranquillo e beato frugava i resti di una confezione di gelato. Uno sguardo truce bastò per mandarlo via.
La sorpresa fu grande quando, ancora in fila, Stravanàto si accorse che Jonathan, chissà perché, era tornato nel suo cassone giocherellando questa volta con una lattina di aranciata. In coda erano tutti fermi e ebbe il tempo di scendere dall'abitacolo sbraitando. Spaventato dall'urlo e dal gesto minaccioso, Jonathan si allontanò di fretta lasciando nel cassone la lattina assieme alla confezione di gelato di prima.
«Ma castia unu pagu...», disse Stravanàto con aria seccata mentre tornava alla guida.
Di saltare la fila non se ne parlava neppure perché i pullman passavano uno dopo l'altro nella corsia preferenziale impedendogli di usarla.
«Ma là sa conca! E it'è: sa processioni?», sbuffava infastidito.
Al semaforo di via S'Arrulloni Jonathan tornò a montare sul cassone del Fiorino e questa volta si era portato un amico. Erano in due adesso, quegli sfacciati, e avevano portato con loro dei fazzoletti di carta usati e una bottiglia di plastica ormai vuota.
Stravanàto scese aprendo lo sportello di botto e urlando qualcosa di molto volgare all'indirizzo dei due che si allontanarono in velocità lasciando nel cassone le cartacce, la bottiglia di plastica, la lattina di aranciata e la confezione di gelato.

Il verde al semaforo fu inutile perché la coda ancora immobile ostruiva l'incrocio; ci vollero tre turni prima di poter passare. Inutile dire che Jonathan e i suoi amici si ripresentarono più volte prima che Stravanàto potesse raggiungere l'incrocio di via Tramontana, il punto oltre il quale il traffico cominciava a fluire. Davanti al campo Rossi fermò definitivamente la macchina per fare i conti con Jonathan e con i suoi soci. Scese dall'auto sapendo di aver affrontato sfide ben più impegnative nella sua vita, come quella volta che aveva lasciato sul terreno addirittura Tonio Fioriera in persona.
«Ita è?», fece subito minaccioso.
Nel cassone del Fiorino c'erano adesso: dodici cicche di sigarette, un pacchetto vuoto di nazionali senza filtro, tre stecchi di cremino, una carta oleata da salumiere, due bottigie di birra vuote, quattro pagine de L'Unione, due figurine di Brugnera (chissà dove le avevano prese, erano uguali a quelle che Stravanàto si portava sempre dietro), uno scontrino di Number One, le cartacce, la bottiglia di plastica, la lattina di aranciata e la confezione di gelato. E Jonathan, che questa volta sembrava non avere alcuna intenzione di andarsene.
Si ricordò dei consigli di Banghittu, il suo compagno di avventure in gioventù: «No fezzis su trascendentali: si du deppis partiri, faìddu de pressi».
Ma Jonathan lo paralizzò iniziando a parlare: «Cosa c'hai, problemi?»
Stravanàto ci rimase male. Non se lo aspettava proprio ma Jonathan continuò.
«Guarda che sto lavorando. Faccio quello per cui mi pagano».
Stravanàto recuperò a fatica parte della lucidità e iniziò ad obiettare. L'idea di partirlo iniziava a sfumare e rischiava proprio di fare il «trascendentale».
«Ma di che cosa stai parlando? Ma ti pagano per riempire di àliga la mia macchina?»
«No», ribatté Jonathan senza perdere la sua eleganza di portamento. «A me e ai miei fratelli ci ha assunto il Comune per riconsegnare ai bagnanti come te tutto quello che lasciate in spiaggia ogni giorno. Questa roba l'hai lasciata tu oggi».
«Ma ita ses narendi? Mi vuoi dire che il Comune si è messo ad assumere i gabbiani?»
«Proprio così. Con le leggi di agevolazione hanno assunto come stagionali tutti noi. Abbiamo il compito di ripulire la spiaggia dopo che ve ne siete andati. Non ci hai mai visto? Eppure arriviamo a decine al tramonto. Possiamo mangiare i resti di cibo che troviamo sulla sabbia, e ti garantisco che ci facciamo belle sazzate. In cambio vi dobbiamo riconsegnare quello che avete lasciato. È il nostro contratto».
Stravanàto in effetti aveva notato le orde di gabbiani che invadevano l'arenile quando tutti lasciavano la spiaggia. Ma mai e poi mai avrebbe immaginato che si trattasse di lavoratori socialmente utili del comune. E mai e poi mai, soprattutto, aveva pensato che i gabbiani sapessero parlare.
«Sai», continuò Jonathan, «da quando ci sono le discariche controllate e da quando i pescherecci imballano i pesci nelle scatole di polistirolo per noi non è rimasto molto cibo in giro. È per questo che hanno trovato questa soluzione: noi mangiamo i vostri resti e in cambio vi restituiamo i rifiuti che lasciate sulla spiaggia libera».
«E quindi avete preso la mia macchina per un cassonetto! Ma vi sembra modo...»
Ma mentre parlava Jonathan se ne volò via dai suoi soci che avevano volteggiato sopra la scena per tutto il tempo.

A Stravanàto non rimase che rimettersi in macchina e avviarsi verso casa con aria perplessa. Non aveva mai visto un gabbiano parlare, men che meno un gabbiano assunto dal comune.
Per un attimo considerò addirittura di potersi camuffare lui stesso con penne, piume e becco finto per provare a farsi assumere. Ma alla fine decise saggiamente di non farlo e di non parlarne con nessuno, visto che nessuno avrebbe creduto a una parola del racconto. Difficilmente i cagliaritani credono a storie poco credibili, eppure spesso non si accorgono che c'è dell'incredibile in quello che vedono tutti i giorni.
Per esempio: non è forse vero che ogni estate vediamo centinaia di migliaia di animali parlanti frequentare la spiaggia libera del Poetto, lasciandola in condizioni orribili ogni fine giornata? E non è forse ancora più vero che ormai ci abbiamo tutti fatto l'abitudine? L'incredibile è davanti ai nostri occhi tutti i giorni, tutte le estati.
GIANLUCA FLORIS

18/07/2010