Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Reliquia a Bonaria svelato il mistero

Fonte: L'Unione Sarda
24 giugno 2008


La storia della statuetta custodita dal 1600 nel tesoro della basilica
Messaggi nella bottiglia, affidati al mare del tempo. È questo il paragone più immediato per i documenti che, spesso, ritornano alla luce quando si aprono gli altari e i reliquiari antichi. Come la statuetta-reliquiario in argento della Madonna di Bonaria, conservata nel tesoro del santuario, a Cagliari. Alta 18 centimetri, poggia su un basamento cubico il cui lato frontale, chiuso da un vetro, mostra all'interno un pezzo di legno scuro. Il confronto con gli angeli di un reliquiario per il cranio di Sant'Antioco, realizzato nel 1615, farebbe pensare che anch'essa sia opera dell'argentiere cagliaritano Sisinnio Barray. La piccola scultura veniva offerta al bacio dei fedeli dai frati Mercedari, per raccogliere offerte utili a riscattare gli schiavi cristiani caduti in mano musulmana.
Nel centenario della Madonna di Bonaria come Patrona Massima della Sardegna, si è voluto verificare il contenuto di questa misteriosa statuetta. Per capire, soprattutto, come mai il suo basamento fosse stato forzato già in antico, con strumenti inadeguati, e grossolanamente richiuso con una saldatura a stagno. Al suo interno sono stati trovati vari fogli di carta, più volte ripiegati su se stessi, e un biglietto avvolto nella pezzuola di seta rossa che faceva da sfondo alla reliquia. Una mano dalla grafia minuta ed ordinata vi scrisse: «Nel Marzo 1869, per paura non venisse profanato, venne aperto questo reliquiario, in cui dicevasi fosse un pezzo della candela che la Madonna portava accesa quando giunse; ed in vece vi si trovò un piccolo osso che stava sopra una carta piegata ad uso di cuscinetto ove posarlo, in cui era scritto Perra o Serra Luigi, ben custodito entro un cubo d'argento con vetro fisso, il tutto saldato dentro questa base. A quest'osso, che conservavasi, si sostituì un pezzo della cassa ove giunse la V(ergine). M(aria). di Bonaria». Vari ripensamenti e aggiunte, da parte dell'estensore, farebbero pensare a un testo composto di getto.
Poche righe, che appartengono a pagine di storia tanto importanti quanto tragiche. Gli anni attorno al 1850, per l'Italia, sono stati tra i più convulsi e densi di avvenimenti. Era in atto il processo di unificazione nazionale, culminato nel 1861 con la proclamazione del regno, dal quale per il momento rimanevano esclusi il Veneto, in mano austriaca, e il Lazio governato dal papa. Da Pio IX dipendeva anche un'organizzazione ecclesiastica detentrice di un potere immenso, non solo spirituale ma anche economico. Vi erano intere regioni, soprattutto al sud, nelle quali il clero risultava amministratore di due terzi dei beni fondiari. E quindi dell'intera ricchezza, in terre che venivano sfruttate soltanto a fini agricoli. Il giovane stato italiano, oberato di debiti e posto nell'assoluta necessità di rilanciare la propria economia, stabilì quindi di nazionalizzare i beni della Chiesa. Per dare una parvenza legale alla negazione palese del diritto alla proprietà privata, tuttavia, l'esproprio non fu generalizzato ma rivolto soltanto agli ordini religiosi di vita contemplativa. L'operazione fu preceduta da una pesante campagna propagandistica, che dipingeva a tinte fosche le "fraterie improduttive" incolpandole dell'arretratezza economica, sociale e culturale del regno. Nel 1855 e nel 1866 si passò alle vie di fatto. Frati e monache, improvvisamente, si trovarono privati dei loro introiti, scacciati dai loro conventi e buttati in mezzo alla strada. I loro possedimenti terrieri furono sequestrati e messi all'asta. Il demanio statale requisì anche le chiese, con i rispettivi arredi, dando luogo tante volte ad autentici scempi del patrimonio storico e artistico. L'ordine di sgombero e chiusura del convento di Bonaria giunse il 28 giugno 1866.
Il complesso fu diviso in due parti: il convento vero e proprio divenne proprietà della diocesi, mentre il santuario fu ceduto al comune di Cagliari. Il governo aveva permesso che rimanessero a Bonaria, per l'ufficiatura della chiesa, cinque religiosi Mercedari alloggiati nei locali della sacrestia. Così, quando il 24 marzo 1869 il Fisco tentò di impossessarsi anche del tesoro della Madonna, vi fu chi poté reagire. Si trattava non solo di calici, croci e ostensori, ma anche degli oggetti preziosi che i devoti, nei secoli, avevano donato per grazia ricevuta.
Come racconta il padre Angelo Quero, «temendo una reazione popolare si raccolse tutto in fretta, con l'idea di spedire ogni cosa a Firenze con il primo piroscafo in partenza. Il comandante della nave, però, si rifiutò di imbarcare tale mercanzia, perché sprovvista di elenco e di documenti d'accompagnamento. La notizia si sparse per la città e una folla di fedeli cominciò a protestare e a minacciare. Non se ne fece nulla, tutto tornò al suo posto».
Nel frattempo, i pochi frati rimasti a Bonaria si erano preoccupati di mettere in salvo una reliquia che si credeva ormai unica: secondo la tradizione un pezzo della candela che nel 1370, approdando a Cagliari chiusa in una cassa di legno, la Madonna avrebbe tenuto in mano miracolosamente accesa. In realtà il frammento biancastro nel reliquiario si rivelò non un pezzo di cera ma di osso umano, purtroppo anonimo. Il suo presumibile colore chiaro, e forse il trattamento consolidante con immersione nella cera fusa cui potrebbe essere stato sottoposto, spiegano l'insorgere dell'equivoco. La cura di proteggere quello che si presumeva un reperto storico e religioso tanto raro, anche a costo di sfidare la legge, si deve probabilmente alla sensibilità di padre Francesco Sulis, una tra le menti più brillanti dell'Ottocento mercedario in Sardegna. Dalla sua penna sono uscite varie opere di storia ecclesiastica locale di indubbia importanza, tra le quali la più volte ristampata "Della statua miracolosa di Maria Vergine di Bonaria, che si venera in Cagliari nella chiesa dei RR. PP. della Mercede. Notizie historiche", Cagliari 1869.
Per evitare eventuali ritorsioni giudiziarie da parte delle autorità civili, che avrebbero potuto contestare l'arbitraria manomissione della statuetta-reliquiario, la testimonianza manoscritta lasciatavi dal padre Sulis non fu datata con precisione né firmata. Tuttavia, il confronto grafologico con altri suoi scritti consente di attribuire la frettolosa redazione del documento proprio a lui, che con questa iniziativa clandestina, rimasta finora sconosciuta, si conferma in quel ruolo di scrupoloso custode delle memorie mercedarie sarde, e di benemerito della cultura, da sempre universalmente riconosciutogli.
MAURO DADEA

24/06/2008