Reportage

L’ospedale psichiatrico di Cagliari. Storia e Testimonianze.
Dal catalogo della mostra "L'occhio della Cronaca" di Josto Manca. Archivio fotografico Unione Sarda

”Matti si ma scemi no”

Era poco più di un ragazzo Mauro Piludu, un giovane infermiere professionale appena diplomato, quando scelse di prestare i suoi primi anni di servizio presso l'ospedale psichiatrico di Villa Clara, un luogo così familiare per lui che tante volte ci aveva giocato da bambino mentre il papà lavorava. “Non ci voleva andare nessuno - racconta Piludu - dicevano che si trattava di un'esperienza che non ti arricchiva professionalmente. Eppure lì ho imparato tutto quello che la società moderna non ti insegna: ho imparato a dare valore a tutto. Sempre. Ho imparato a stare bene con le piccole cose”.

Sono trascorsi quasi vent’anni da allora, ricorda ancora la sua prima notte in reparto?
Certamente. Fu traumatica, a dir poco. Ricordo i soffitti molto alti e gli anditi interminabili e costantemente illuminati da una luce soffusa che richiamavano un’atmosfera quasi medievale e ricordo quell’infermiere un poco più anziano di me che mi chiese di seguirlo, mi condusse in uno stanzone e mi disse di scegliermi un materasso: avrei dormito insieme ai maniaci e se avessi avuto qualche problema lui sarebbe stato nella stanza in fondo al corridoio. Arrivato lì non sapevo che fare, era buio e il sottofondo era inquietante: risatine, bisbigli, strani rumori metallici e d’un tratto delle grida che provenivano dall’andito. Pochi istanti dopo eccomi a separare due che per poco non si soffocavano a vicenda per una sigaretta. Bell’esordio.

Avere cura di così tante persone affette dalle più svariate patologie psichiche richiede senz’altro anche una buona dose di organizzazione. Come erano articolate le giornate a Villa Clara?
Partiamo dal presupposto che a Villa Clara non esisteva una giornata-tipo: eravamo quattro o cinque infermieri che dovevano prendersi cura di cento persone affette da patologie mentali più o meno gravi, persone che il più delle volte non erano autosufficienti e che pertanto avevano bisogno di un supporto costante anche per svolgere le più semplici e comuni attività quotidiane. E in più dovevamo occuparci di tenere in ordine i reparti, di rifare i letti, di pulire i bagni, di sistemare gli ambienti comuni: non si aveva mai un attimo di respiro.

La giornata generalmente cominciava alle sette quando venivano somministrate ai pazienti le rispettive terapie e, quando capitava che qualcuno le rifiutasse, non era possibile neppure insistere troppo affinché le prendessero perché si rischiava di andare incontro a delle reazioni violente.

Dal catalogo della mostra L'occhio della Cronaca di Josto Manca_ Archivio fotografico Unione SardaSubito dopo si procedeva a lavare e vestire i degenti, ma non era facile perché spesso molti di loro poco dopo essere stati lavati si sporcavano nuovamente e poco dopo essere stati vestiti si stracciavano gli abiti di dosso, alcuni volevano stare sempre nudi, altri rifiutavano le scarpe.

A mezzogiorno veniva servito il pranzo e alle sei del pomeriggio la cena. Molti dei maniaci avevano bisogno di essere imboccati, molti altri rischiavano spesso di soffocare e, in caso di malumori, non era raro neppure veder volare qualche sedia: la sala da pranzo era certamente uno dei luoghi in cui accadevano le cose più imprevedibili.

I pazienti erano tenuti a rispettare gli orari, ma negli intervalli di tempo che intercorrevano tra un pasto e l’altro erano tutti liberi: potevano stare nel cortile in cemento nei dintorni del reparto o passeggiare nel vasto giardino che circondava il nosocomio o varcare il cancello e andare in città -ovviamente nei limiti delle loro possibilità fisiche e psicologiche. Se qualcuno non rientrava in tempo si chiamavano i carabinieri e se ne denunciava la scomparsa, ma non sempre lo si ritrovava e in quel caso era dato per disperso.

Se qualcuno fosse stato alla ricerca di un po’ di quiete tra le mura del manicomio, dove avrebbe potuto trovarla?
L’unico posto tranquillo era il guardaroba dove regnava un silenzio a dir poco surreale, un silenzio che mancava in qualsiasi altro ambiente del manicomio, mentre qui era come se le stoffe riuscissero a schermare i rumori. Due funzionari avevano il compito di distribuire i vestiti ai pazienti - per lo più regalati dalla gente comune - e a dar loro una mano c'era anche un signore, uno dei ricoverati, che andava lì perché in qualche modo si sentiva importante, si sentiva diverso dagli altri per il solo fatto di avere un ruolo laddove tutti erano poco più che un numero.

Le festività scandiscono ritmicamente la vita di ognuno. Questo accadeva anche a Villa Clara?
Ogni giorno era uguale all'altro a Villa Clara e la domenica si sentiva solo perché si celebrava la messa. Il giorno di Natale invece si festeggiava con un pasto d’eccezione, generalmente il pranzo, ma purtroppo anche in questa occasione pochissimi dei ricoverati ricevevano delle visite.

Ricordo una vigilia di Natale in particolare in cui un paziente che non aveva mai parlato tanto si era avvicinato alla guardiola dove stavamo noi infermieri con il desiderio di festeggiare ancora per un po’. Brindò con noi e per la prima volta ci raccontò la sua vita: era un pescatore e pescava con le bombe a mano, gli piaceva cantare ed era stato nel nord Italia - di recente ho scoperto che si trovava lì per lavoro e che in quell’occasione fu picchiato selvaggiamente. Fu un vero trauma per lui, il trauma che lo condusse a Villa Clara. É stata l'unica notte in cui hanno dormito tutti.

Non è mai più capitato.

Organizzavamo una grande festa anche per Carnevale: tutti si vestivano a maschera e c’erano canti e balli e gruppi musicali. A volte offrivano persino il gelato: era un premio per i pazienti e loro erano felici come bambini.

In un ambiente lavorativo come quello dell’ospedale psichiatrico si fanno certamente tanti incontri “fuori dall’ordinario”. Ne ricorda qualcuno in particolare?
Ho incontrato molte persone speciali a Villa Clara e ho voluto molto bene a tanti, ho anche avuto paura qualche volta, ma tutti, indistintamente, sono stati dei maestri per me. Parlarci mi faceva sentire libero e, se ti permettevano di entrare nel loro mondo, nei loro piccoli deliri, in qualche modo scoprivi delle persone straordinarie, poco abituate a premure e carezze, ma allo stesso tempo bisognose e capaci di affetto.

C'era quello che parlava con gli ufo: era un signore che stava in carrozzina e quando noi gli facevamo qualche domanda lui creava con le dita un monitor invisibile, iniziava a parlarci con un linguaggio inesistente e ci dava una risposta solo in base a quello che sentiva da questo schermo. Qualche volta è rimasto anche tre o quattro giorni senza mangiare perché “loro” non glielo permettevano.

Vecchia radio abbandonataCe n'era un altro che ogni fine mese sentiva delle voci che provenivano da una radiolina che portava sempre con sé - le voci e la musica fastidiosa son molto comuni in questi malati - voci che annunciavano che presto sarebbero venuti a prenderlo e che sarebbe morto. Lui allora entrava in crisi e andava a salutare tutti quanti tra abbracci e pianti. Noi lo consolavamo dicendogli che non gli sarebbe accaduto nulla, ma non c’era niente da fare. Alcuni dei pazienti che ormai lo conoscevano lo deridevano, altri lo abbracciavano e basta, ad altri ancora non interessava nulla.

Poi c'era un maestro di scuola che invece sentiva ancora gli schiamazzi dei bambini che lo tartassavano e chiedeva spesso che si parlasse a voce bassa perché queste voci erano un tormento. “C'è chiasso!”, ci ripeteva.

C'erano ideologie politiche dominanti. Simpaticissimo un signore che aveva ricevuto un pigiama nuovo color mattone e si era rifiutato di indossarlo perché lui non era di sinistra. Ne aveva scelto un altro più vecchio. Parlava persino con le sigarette e quando le vedeva rosse non le fumava.

C'era un signore che stava ore e ore seduto su una pietra nel parco ad immaginare il suo gregge. Faceva il pastore prima.

Ce n'era un altro che era convinto che la sua degenza a Villa Clara se la dovesse pagare perciò faceva le pulizie, faceva le commissioni, faceva di tutto e se credeva di non aver lavorato abbastanza si comprava da mangiare con la sua pensione perché non poteva andare in debito con l'ospedale. Eppure noi glielo dicevamo che l'assistenza era gratuita.

C’era quel signore che immaginava di avere un rapporto d’amore con la sua compagna, le mormorava frasi affettuose e da solo si rispondeva, le offriva ogni tenerezza e da solo le ricambiava come se lei fosse stata là. Quasi ogni sera, passando davanti alla sua porta chiusa, intuivo che metteva in scena quella piccola commedia, quell’intensa rappresentazione degli attimi che avrebbe voluto rivivere mosso, forse, solo dal disperato bisogno di sentirsi un po’ meno triste, un po’ meno solo.

Dal catalogo della mostra L'occhio della Cronaca di Josto Manca. Archivio fotografico Unione SardaE c'erano anche dei legami speciali infatti alcuni di loro si accudivano a vicenda quasi fossero padri e figli o madri e figli e quelli sono stati i casi in cui la separazione, sopraggiunta nel momento in cui il manicomio è stato chiuso, è stata più difficile e dolorosa.

Alcuni trascorrevano le giornate seduti su una panchina aspettando una visita che non sarebbe mai arrivata, altri erano capaci di stare immobili per ore ed ore, altri ancora non erano affatto pazzi, ma stavano lì per abbandono, per fame, molti riempivano i vuoti dell’anima con l’alcool e quasi tutti fumavano oltre misura per lo stesso motivo.

L'ospedale psichiatrico era questo: Villa Clara non era la doccia alle sette o il pranzo a mezzogiorno, Villa Clara erano queste persone che chiedevano amore, che chiedevano comprensione, che chiedevano conforto, che chiedevano a loro modo un rapporto sincero e che non mancavano mai di ricordarci “ Pazzi si, ma scemi no”. 

Mauro Piludu prestò servizio presso l’ospedale psichiatrico di Villa Clara dal 1992 al 1998, anno della sua chiusura definitiva, e proseguì la sua esperienza presso le case famiglia in cui furono convogliati gli ex pazienti del manicomio.

“L'umanità negata. Sogni e follie da un manicomio” è un velato resoconto di quegli anni: attraverso pochi semplici racconti l'infermiere richiama alla memoria molte delle persone eccezionali incontrate lungo il suo percorso rivelando gli aspetti più significativi della sua esperienza.

Gli anni a Villa Clara hanno inciso profondamente nella formazione professionale, ma sopratutto umana di Piludu che, infatti, ancora oggi, porta avanti la sua scelta di vita continuando a dedicarsi con grande sensibilità a persone che vivono condizioni di disagio estremo presso il reparto di unità spinale dell'ospedale Marino di Cagliari.