Rassegna Stampa

Il Sardegna

Un istrionico “Macbeth”

Fonte: Il Sardegna
11 novembre 2009

Da stasera al Teatro Massimo Abiti moderni per un dramma shakespeariano. Con Lavia si inaugura la stagione di prosa del Cedac: «È la tragedia più postmoderna del bardo». di Anna Brotzu

 Una favola narrata da un idiota, piena di strepito e furia e senza significato alcuno”: forse davvero la vita non è altro che questo, “un'ombra che cammina”, come suggerisce un'icastica frase di quell'immortale capolavoro che è il Macbeth di Shakespeare, da stasera alle 21 fino a domenica al Teatro Massimo di Cagliari, nella versione rigorosa seppur «in abiti moderni» firmata da Gabriele Lavia. Sarà dunque l'attore e regista milanese ad inaugurare la Stagione di Prosa del Cedac con un'originale mise en scène metateatrale, dove, racconta Lavia: «domina la semplicità, senza nessun effetto di bizzarria, pur se affiorano i molteplici sensi sottesi a un testo di grande pregnanza filosofica e straordinaria immediatezza».
SULLA SCENA convivono realtà e sogno, tanto nella dimensione “magica” perché, spiega l'artista: «le streghe sono creature simboliche, ma per ciò stesso hanno una propria sostanza, che è l'espressione fenomenica di quello che rappresentano; e in teatro un fantasma può materializzarsi “naturalmente”, entrando da una quinta» quanto in quella narrativa, con i frammenti di quotidianità di una «una compagnia alle prese con un'opera e dei personaggi troppo al di là delle capacità degli attori». A indossare i panni non proprio comodi del condottiero fattosi tiranno sulla spinta dell'ambizione, sarà lo stesso Lavia, che prosegue: «il potere nel Macbeth è una metafora di quella compiutezza che si riassume nella figura del re, con la certezza di essere quel che si è; Shakespeare nelle sue tragedie affronta la questione dell'essere e non essere, e nelle commedie il tema della verità». E continua: «il dramma di colui che si è fatto re, non seguendo la linea verticale, per discendenza legittima, ma con gesto orizzontale, strappando la corona al sovrano per mettersela in testa, è nell’incertezza costante dell’essere, il suo trono è instabile e così egli è condannato all'agire, e non a caso la mano, con l'occhio, è uno dei termini più frequenti». Una «necessità del fare che, nella tragedia più postmoderna di Shakespeare, descrive la fine di un mondo, risponde all'ansia tecnologica della società odierna», dice ancora Lavia che affida invece alla «sensibilità istrionica» la possibilità di dar corpo all'immaginazione in quella forma d'arte che è azione visibile, cioè «il teatro, la più importante invenzione umana, ma impossibile», dunque sempre in sospeso verso la perfezione. E se è mutato il senso della politica, e «il ruolo del teatro nella società, particolarmente complesso in Italia dove si parla una lingua metafisica, creata per la “Divina Commedia”, mentre il linguaggio della scena è prettamente fisico », restano validi gli assunti universali del drammaturgo elisabettiano e forse, aggiunge Lavia: «l’unico modo per essere, aveva ragione Amleto, è non essere». ¦