Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Parole contro i muri

Fonte: La Nuova Sardegna
12 ottobre 2009

SABATO, 10 OTTOBRE 2009

Pagina 42 - Cultura e Spettacoli


A Cagliari tre scrittori si raccontano



L’incontro con Suad Amiry, Peter Schneider e Michael Reynolds

ENRICO PAU

CAGLIARI. Germania anno 20. Rossellini non c’entra niente. Nel 1946 a Berlino il muro non c’era ancora. La Germania era un cumulo di macerie attraversate solo dal vento e dai fantasmi della storia. La sua costruzione sarebbe iniziata nell’agosto del 1961.
Honneker il dittatore comunista, quello che ascoltava «le vite degli altri», davanti a quella muraglia che divideva Est e Ovest, opulenza e statalismo, lanciò la sua profezia: «Questo muro durerà cento anni». In una sera del 9 novembre del 1989, vent’anni fa, il muro cadde, rivoluzionando per sempre le certezze degli europei cresciuti con la guerra fredda. Peter Schneider lo scrittore tedesco ospite in questi giorni del Festival di letteratura per ragazzi «Tuttestorie», fu testimone di quegli avvenimenti, anche se non direttamente, in quei giorni era negli Stati Uniti. Come Honneker, aveva fiducia in quel muro, era certo che non sarebbe crollato tanto facilmente. Lui tedesco occidentale di sinistra confessa l’errore storico della sua generazione: quello di aver immaginato la vita vissuta dietro il muro, diversa da come realmente fu. La scoperta che anche quelli dell’est sognavano i comfort dell’occidente, e oggi Schneider è costretto a dire che forse avevano ragione.
Quel muro Schneider lo ha studiato, mettendo insieme le storie dei tanti che lo passarono, o che sognarono di passarlo nelle due direzioni. Sì ci furono anche quelli che dall’occidente saltarono il muro verso Est. Lo racconta nel suo libro «Il saltatore del muro». In tema con il dibattito della serata cagliaritana «Un muro che crolla ma quanti resistono».
Manuela Fiori, e i suoi compagni di viaggo di Tuttestorie, hanno avuto la bella intuizione di mettere insieme tre scrittori che hanno molto da dire sui muri, Schneider appunto, la scrittrice e architetto palestinese Suad Amiry, Michael Reynolds, australiano vissuto negli Usa e ora cittadino di Roma e del mondo curatore di una raccolta di racconti «Dieci storie per attraversare i muri». Come ormai succede dalla prima edizione del Festival la serata, che ha visto Piazza San Cosimo affollata, è stata affidata alla conduzione di Marino Sinibaldi, presenza costante del festival e ormai quasi virtuosistico nella sua capacità di dare al dibattito dei tempi che lo fanno assomigliare a uno spettacolo.
La presenza più «teatrale» della serata è stata quella di Suad Amiry che è dotata di una leggerezza affabulatoria che contrasta con il doloroso «paesaggio» in cui sono ambientati i suoi romanzi come «Sharon e mia suocera» o l’ultimo «Murad Murad». Storie che hanno sempre a che fare con la quotidianità di quelle popolazioni che lo Stato di Israele ha confinato dietro il «muro di Bansky», chiamato così da quando lo straordinario writer inglese ha cominciato a decorarlo con i suoi poetici interventi pittorici. «Sharon e mia Suocera» è un diario, anche ironico, dell’assedio israeliano che costrinse i palestinesi a un lungo isolamento dal mondo. La sintesi di quell’esperienza è tutta nella battuta più felice del romanzo nella quale la Amiry dice di non poter perdonare agli israeliani di averla costretta a vivere per trentaquattro giorni con sua suocera.
«Murad Murad» racconta la storia di un viaggio reale compiuto dalla scrittrice con un gruppo di lavoratori palestinesi, e fra questi il suo giardiniere Murad, costretti a rischiare la vita, a superare i pericoli dei check point israeliani per arrivare a Gerusalemme e trovare un lavoro, clandestini nella loro stessa patria, sono i veri costruttori di pace, sperimentano ogni giorno un modello di convivenza reale e possibile l’unico vero ponte fra Isralele e la Palestina. Il muro per la Amiry è un ostacolo alla pace, diverso come ha notato Schneider da quello di Berlino, nato per tenere la gente dell’Est dentro, quello israeliano invece esiste per tenere i palestinesi fuori da Isralele.
Per Michael Reynolds cresciuto in Australia i muri sono soprattutto geografici, oppure quelli culturali che ancora dividono i nativi, le popolazioni aborigene, dai bianchi discendenti dei primi colonizzatori, soprattutto galeotti, arrivati sull’isola per essere «rinchiusi in una prigione che non aveva bisogno di muri o di sbarre perché da una parte era chiusa dalla vastità dell’oceano e dall’altra dal deserto».