Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Da Trieste al mondo per guardare al futuro ancora con speranza

Fonte: La Nuova Sardegna
12 ottobre 2009

DOMENICA, 11 OTTOBRE 2009

Pagina 38 - Cultura e Spettacoli




Lo scrittore sloveno ospite del festival in corso a Cagliari

ROBERTA SANNA

CAGLIARI. Il vizio della memoria non è fatica, neppure a novantasei anni. E’ un filo esigente, lega lucidamente fatti e conseguenze. Si snoda preciso lungo le svolte della Storia, si infila in pieghe poco illuminate, con sguardo vivo, mai scolora nel bianco e nero da foto ingiallita. E scioglie la lingua, ogni volta che «tacere è un delitto»: «Avrei da dire sino a mezzanotte». Boris Pahor, l’autore di Necropoli, scrittore triestino in lingua slovena più volte candidato al Nobel, ospite del Festival Tuttestorie, ironizza sulla propria loquacità. Col «vizio della memoria» titolo dell’affollato incontro di venerdì sera, non deve faticare Marino Sinibaldi di Radio Tre, che nel presentare Pahor mostra ammirazione per lo scrittore grande, affetto per l’uomo e la sincerità intellettuale, ed ancora, dice, «imbarazzo, stupore». Perché un capolavoro come «Necropoli», opera di fama europea che «riesce a fondere l’assoluto dell’orrore dei lager con la complessità della storia» (scrive l’altra «anima» di Trieste, Claudio Magris), in Italia è stato tradotto trent’anni dopo essere stato scritto. Ne ha atteso altri dieci prima di essere pubblicato da Fazi ed arrivare nel 2008 alla diffusione. Segno che una «figura non allineata» fatica a trovare spazio e voce, specie se nel ricostruire la storia delle terre «irredente» impone un punto di vista, quello di uno sloveno tra fascismo e dopoguerra, che «mette in imbarazzo noi e anche loro».
Nel 1918 la Trieste austro-ungarica e una parte di territorio sloveno diventano di colpo italiani e fascisti. La Casa della cultura è data alle fiamme, la lingua è «tagliata». Ci sono arresti e condanne a morte. «E’ un caso disgraziato sperare in una guerra»: accade agli sloveni occupati. Pahor, ottimo studente sloveno, è ripetutamente bocciato e solo in seminario può riavere la sua lingua. Poi l’occupazione tedesca. Gli anticomunisti sloveni collaborano con i nazisti denunciando i possibili resistenti prima che si possano organizzare. Anche Pahor, che non si è mai presentato al comando tedesco, con altre 600 persone viene arrestato e deportato nei campi di lavoro, come interprete e poi come infermiere.
Nel muto disinteresse della sua città, Pahor ha raccontato quei periodi in «Il rogo del porto» e «Qui è proibito parlare» e ora, con le deportazioni, in «Tre volte no»: quelli opposti con la stessa fermezza al fascismo, al nazismo e al comunismo. «Memorie di un uomo libero», è il sottotitolo. Libero e infaticabile nel farsi ascoltare, capire e non essere frainteso. Quindi evidenzia e spiega, non sempre racconta ciò che ci si aspetta. «C’era una stella rossa sulla zebra», la divisa del campo di concentramento, non di sterminio: «Noi non dovevamo essere eliminati, ma lavorare». Ricordare i prigionieri politici, gli zingari, i resistenti rastrellati in tutta Europa, in quattro milioni finiti in «cenere in mezzo alla guerra» come i sei milioni di vittime ebree, non deve costare il sospetto di antisemitismo. «La Storia va raccontata tutta», questa è l’esigenza. Anche se «non fa piacere a molti». Come quando descrive il campo di lavoro (tra i cinque in cui ha vissuto, da Dachau ai Vosgi) dove si costruivano le V2, e parla della «fuga di nascosto di Von Braun», destinato alla conquista statunitense della Luna, e ricorda gli eroi dimenticati, ingegneri e chimici deportati che sabotavano i famigerati missili destinati all’Inghilterra. O come la strage degli sloveni «domobranci», collaborazionisti dei nazifascisti rimandati indietro dagli inglesi, denunciata insieme al poeta Edvard Kocvek: «Non era facile dichiarare che era stato un delitto annientare tutta quella gioventù, senza neanche un processo». L’uscita di quel libro nel 1975 provocò un pandemonio: accusato di difesa del collaborazionismo si vide negato l’ingresso in Jugoslavia per tre anni. Nemmeno quando riceve premi prestigiosi Pahor rinuncia a dire ciò che pensa. Nel 2007, al conferimento della Legion d’onore rimproverò alla Francia la negazione delle lingue minoritarie. E così, davanti alla ventilata assegnazione di una onorificenza da parte della Presidenza della Repubblica, lo dice prima: «Non faccio il bullo con Napolitano, ma se si dice “sanguinari slavi”, si parli anche di quello che è successo prima».