Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Pahor, le verità scomode d'un vecchio di confine

Fonte: L'Unione Sarda
12 ottobre 2009




Non toccategli i dialetti, ne ha un rispetto sacrosanto, «e non sono leghista, eh?». Non toccategli la lingua che viene da dentro, dal ventre materno, dalle prime voci che comunicano emozioni e concetti. La sua lingua madre gli è stata portata via quando era bambino, e da un giorno all'altro fu costretto dal regime fascista a diventare un bravo alunno italiano e a mettere da parte lo sloveno. A parlarlo di nascosto, a usarlo per dare sottovoce un nome e un senso alle cose. Era la sua identità di triestino di madrelingua slovena, il nutrimento della sua identità, che cercava disperatamente di salvare. «Essere fedeli alla propria lingua è essere fedeli a quello che si è dentro», dice. Parla con la sua dolce inflessione triestina, Boris Pahor, classe 1913. Parla nella lingua che ha imparato ad amare. L'altra, quella negata, quella umiliata, quella tagliata, l'ha riservata ai suoi libri. L'ha usata per denunciare al mondo i molti difetti di memoria di una storia raccontata a metà: per rivendicare sino alla fine dei suoi giorni il suo fiero status di non allineato.
Il successo, la notorietà, il consenso di critica e di pubblico, sono arrivati per lui sul far della sera, come la nottola di Minerva. E hanno messo solo in parte riparo a trent'anni di assenza. Tanti ne sono passati da quel primo capolavoro Necropoli , nel quale Pahor denunciò gli orrori del nazismo. Anni durante i quali la Francia, la Germania, hanno avuto il coraggio di tradurre e pubblicare la sua feroce testimonianza. L'Italia ci ha messo molto più tempo. È stato un editore di Monfalcone, a proporre nel 1997 Necropoli . È stato un editore più noto (Fazi) a riproporlo, nel 2008, sempre nella traduzione di Ezio Martin. Da allora Boris Pahor non ha più smesso. Non di scrivere, non parliamo di questo, ma di essere tradotto, pubblicato, e lodato in Italia e dall'Italia. Una Legion d'onore dalla più generosa Francia, nel 2007, una candidatura al Nobel, tra i suoi libri si contano nel 2001 Il rogo del porto (scritto nel 1959), Qui è proibito parlare (1964-2009), Il petalo giallo (1999-2004). Curioso destino questa doppia data che per gli uomini racconta l'anno di nascita e quello di morte e per un libro ha il sapore di un riconoscimento, ancorché tardivo.
Ieri sera, dalle sette alle nove, ospite del Festival Tuttestorie, Pahor ha catturato nel Babbo Parking di Piazza San Cosimo un pubblico che ha ascoltato con attenzione la sua storia: quella che i libri non ci raccontano, e lui ora ripropone nella sua interezza. A provocarlo (bastava davvero poco, per la verità) è stato Marino Sinibaldi. Amico di Tuttestorie, mitico conduttore di “Fahrenheit” (che nel 2008 ha eletto Necropoli libro dell'anno), ora direttore di Radiotre, nel presentare questo grande scrittore del Novecento, ha parlato di felicità, di imbarazzo, di scandalo, di stupore. La felicità si riferisce alla scoperta di un grande narratore, e della sua «scrittura traumatica». L'imbarazzo, lo scandalo, lo stupore, sono legati a doppio filo a quel lungo silenzio. A quel non voler prendere in considerazione un uomo che scrive per guardare in faccia la verità, per dare dignità al suo particolare punto di vista sulla Storia. La storia, premette Sinibaldi, di come si forma un carattere, una persona: dalla debolezza di un'infanzia tradita alla consapevolezza di una piena maturità. La storia personale del piccolo Boris che viene bocciato perché non conosce bene la lingua che gli impone il Fascismo, la storia collettiva di un popolo che ha molto patito, il suo.
Questa soprattutto Pahor vuole raccontare. Elegante nel suo abito di lino color sabbia, cravatta grigia e gilè scuro, parla con spietata lucidità, senza far sconti a nessuno, neppure a se stesso. E per lui parla la sua ultima fatica letteraria, edita da Rizzoli e appena arrivata in libreria. Si intitola Tre volte no , e propone le “memorie di un uomo libero”, nate dall'incontro con la giovane storica Mila Orlic. Tre volte no: al nazismo, al fascismo, al comunismo, che ha valori condivisibili ma poi li perde quando vuole imporre la dittatura.
Dall'incendio della casa di cultura slovena di Trieste nel 1920 ai campi di concentramento, dalle umiliazioni dell'infanzia al primo amore, lo scrittore sloveno ci ricorda che il fascismo non fu un regime tollerante, ma incarnò un male violento e oppressivo. Giusto commemorare (finalmente) le vittime delle foibe, ma altrettanto necessario riconoscere i torti di una dittatura che non ha avuto alcuna pietà verso le minoranze.
È un uomo di confine, Pahor, e forse chissà, avrebbe fatto a meno di nascere in un luogo complicato come Trieste. Ma ha accettato la sua condizione senza tentennamenti. Quando nessuno lo conosceva, e ora che è diventato famoso. A novantasei anni, tutti lo cercano, lo osannano, lo vanno a trovare nella sua casa dove vive solo, dopo la morte della moglie Radoslava, “preziosa compagna della mia vita”. «È come se avessero scoperto una Gina Lollobrigida senza reggipetto». E questa non è l'unica frase che suscita un divertito applauso, durante la serata. Certo, questo vecchio che ha il vizio della memoria sarebbe più felice se lo Stato italiano, se la sua città, se chiunque voglia dargli un riconoscimento, glielo desse per tutto ciò che ha rappresentato: per tutti i suoi no e non solo per quello al nazismo. «Lo premetto sempre quando c'è aria di un premio. Attenti a che cosa scrivete nella motivazione. O tutto o niente. Al momento è niente», sorride dietro le lenti con quei suoi occhi ironici che hanno visto tutto. Dagli orrori della dittatura ai collettivi vuoti di memoria.
MARIA PAOLA MASALA

10/10/2009