Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Il “napolide” De Luca: «Con la mia scrittura convoco gli assenti»

Fonte: L'Unione Sarda
12 ottobre 2009

Protagonisti L'autore stasera a Cagliari 



«La parola serve, in circostanze opportune serve assai». Da ciò che lo scrittore napoletano Erri De Luca afferma è facile trarre massime di saggezza che sono frutto di una passione letteraria spoglia di orpelli mondani: «A me non serve il vocabolario. Siccome scrivo storie che sono il tono di voce di qualcuno che le sta raccontando e le mie frasi non sono più lunghe del fiato che ci vuole a pronunciarle, la scrittura è fluida, e mi viene tutto facile». De Luca, il cui ultimo romanzo Il giorno prima della felicità è stato per varie settimane in testa alla classifica, sarà protagonista stasera alle 17,30 al Festival Tuttestorie di Cagliari ed è atteso alla Buchmesse di Francoforte. E mentre è in arrivo l'11 novembre il racconto Il peso della farfalla , ha debuttato in anteprima nazionale con lo spettacolo da lui scritto e interpretato Fili a “Life in Gubbio”. Una «faticata», dice, anche se «io con la scrittura non sudo. Ma capisco quelli che si fanno le sudate».
Ma chi sono quelli che sudano?
«Peppino De Filippo, che scrive sotto dettatura di Totò. Lui non è pratico e fatica assai. Ma per me che ho fatto l'operaio per molti anni della mia vita, la scrittura è stato sempre il tempo salvato della giornata di lavoro. Arrivavo a scrivere che avevo già sudato».
E ora che le succede quando scrive?
«Più mi inoltro negli anni (io sono uno del Novecento con i tempi regolamentari scaduti e sono già ai supplementari) e più mi trovo tanti assenti intorno e per me sono tutti assenti ingiustificati: non ho dato il permesso a nessuno di morire e non mi sono pacificato con nessun morto. L'assenza è come l'ergastolo: il giorno uno o il giorno mille è la stessa cosa. Attraverso la scrittura, convoco tutti questi assenti che stanno sparpagliati e li obbligo a stare con me finché scrivo».
Lei si è definito “napolide”. Cosa significa?
«Non sono apolide perché sono un cittadino della Repubblica Italiana, anche se non a trazione integrale perché non voto, dispongo di documenti ufficiali, ma essendomi tolto da Napoli, sono uno che ha perso quel luogo e perciò ho inventato la definizione di “napolide”. Ho costruito una casa in campagna e ho piantato tanti alberi che non sono miei e ai quali ho proposto di abitare là, e mi rendo conto che il fatturato migliore della mia vita è aver fabbricato tutta quell'ombra. Però anche così me ne andrei subito».
Perché questa disaffezione territoriale?
«È collegata ad un fortissimo sentimento d'origine. Provengo da quella città centro del Mediterraneo, lì si è fermata la mia educazione sentimentale: lì ho imparato la collera, la compassione, la vergogna. Sono figlio di questa educazione ed è quel luogo che me l'ha trasmessa. Da lì mi sono staccato a viva forza perché avevo esaurito la pazienza. Quella città ha bisogno di sentimenti forti o di necessità stringenti per tenere i suoi cittadini dentro».
È difficile vivere a Napoli?
«Non è mai stato facile vivere a Napoli e non credo che questo momento sia peggiore di altri. Nel 1900 la città si dissanguava di forze fresche che emigravano lontano. Ogni famiglia aveva un posto vuoto a tavola. Era una città difficile da abitare, come in genere il Sud d'Italia. Oggi Napoli non è più così. È come una delle tante città del Nord dove arrivano i nuovi immigrati, la forza fresca del Sud del mondo che viene a irrobustire la nostra forza lavoro e a sostituirla».
MASSIMO GIOVANNONI

11/10/2009