Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Armando Punzo: «Voglio mettere in scena quello che potremmo essere e che ci sfugge»

Fonte: L'Unione Sarda
24 aprile 2019

La Compagnia della Fortezza da oggi in scena al Massimo di Cagliari

 

 

Ritrovare la libertà, interiore e fisica, su un palco. Accade da tempo agli attori che animano la Compagnia della Fortezza, fondata trentuno anni fa dall'attore, regista e drammaturgo, Armando Punzo. Una compagnia diversa dalle altre, perché composta da persone detenute nella Fortezza Medicea di Volterra, un tempo, carcere tra i duri del nostro Paese. Da lì, nel 1988, è partito il singolare viaggio del regista campano, in scena da oggi (20.30) a domenica al Teatro Massimo di Cagliari con “Beatitudo”, a conclusione della stagione Cedac. «I motivi che mi spinsero a intraprendere questa avventura furono diversi», ricorda Punzo: «L'insofferenza nei confronti del modo di produrre teatro che vedevo intorno a me, sia in quello professionale che di ricerca. Il desiderio di trovare un'altra strada con non professionisti. La voglia di lavorare dentro un carcere per rispondere a una domanda che mi accompagnava da tanti anni. Mi sono sempre interrogato su quanto io, noi, fossimo prigionieri. Il carcere, quindi, come metafora dell'essere prigioniero. L'idea di partenza non aveva nulla a che vedere con una finalità sociale o del genere. Il carcere come luogo reale non mi interessava».
“Beatitudo” è ispirato alle opere di Borges, che amava avventurarsi in mondi paralleli e in realtà «altre»…
«Lo spettacolo ha come tema cardine la ricerca della felicità. È un discorso sull'uomo, su quanto egli sia incapace di percorrere la strada della felicità. E naturalmente, è un omaggio a Borges, autore che ha ingaggiato un corpo a corpo con ciò che noi intendiamo per realtà. Lui diceva una cosa straordinaria, ovvero che la realtà non è che una delle tante possibilità».
Le opere di Borges sono presenti come frammenti, o c'è di più?
«Abbiamo lavorato su tutte le opere, stando però attenti a renderle poco riconoscibili anche a coloro che invece ne hanno una conoscenza profonda. Abbiamo preso giusto quello che serviva alla nostra idea».
“Beatitudo” non è un capitolo a sé…
«Stiamo lavorando come se stessimo realizzando una saga. I primi due anni, sono stati dedicati a Shakespeare. Gli altri due, a Borges. Tutto è realizzato come un racconto incentrato sulla figura di un capocomico e su quella di un bambino, che prima si allontanano dall'affresco shakespeariano, non volendo più mettere in scena quel tipo di umanità disegnata dal Bardo. E poi approdano a “Beatitudo”. La terza tappa, sulla quale stiamo lavorando, riguarderà dove andranno i due protagonisti. Molto del teatro di oggi si affanna a raccontare quello che siamo. A me piace invece parlare di quello che potremmo essere, e che ci sfugge».
L'arte non ci aiuta quindi solo a mantenerci umani.
«Ci mantiene umani, ma guarda a quella parte dell'uomo che non si accontenta di essere tale. Se ci arrendessimo a ciò che siamo solo come essere umani, sarebbe davvero poco. La sfida è quella di interrogarci».
Negli anni quanti spettacoli avete portato in scena?
«Trentuno. Al momento, siamo l'unica compagnia stabile d'Italia, che gira e fa tournée, anche se ormai, il teatro è entrato in molte realtà carcerarie».
Spettacoli pensati per i detenuti o creati il pubblico?
«Il destinatario finale dei miei lavori non sono i detenuti, ma il pubblico».
Cos'è per lei il teatro?
«Una grande possibilità per fare un'esperienza altra. Una pratica concreta. Un piccolo laboratorio dove si sperimenta un uomo ideale. Uno specchio che ci fa vedere come dovremmo essere nella vita di tutti i giorni».
Carlo Argiolas