Rassegna Stampa

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Nel film di Zucca un inno alla sardità: “Ma gioco coi luoghi comuni dell’Isola”

Fonte: web sardiniapost.it
1 aprile 2019

Nel film di Zucca un inno alla sardità: “Ma gioco coi luoghi comuni dell’Isola”
 


“La Sardegna è il tema”, dice il regista oristanese 47enne Paolo Zucca, che torna nelle sale il 4 aprile con il suo secondo film, L’uomo che comprò la luna. E il tema è declinato all’interno di una commedia stralunata e surreale in bilico tra ferocia e malinconia, comicità grottesca e favola. C’è lo sguardo dissacrante dell’autore sugli stereotipi e i luoghi comuni dei sardi – non tanto il come ci vedono all’esterno ma il come ci vediamo noi e come ci poniamo in diverse circostanze, certe posture, certe ossessioni. Ci sono alcuni scorci bellissimi del paesaggio dell’Oristanese. E infine una celebrazione della sardità che riesce a temperare le risate su noi stessi della prima parte del film. La pellicola è interpretata da Jacopo Cullin, Benito Urgu, Stefano Fresi, Francesco Pannofino, Lazar Ristovski e Angela Molina, è stata scritta da Zucca insieme a Geppi Cucciari e Barbara Alberti ed è prodotta da La Luna, Indigo Film con Rai Cinema e il sostegno della Sardegna Film Commission Sardegna. Si tratta del secondo film del regista oristanese, dopo l’acclamato L’arbitro del 2013, di cui rappresenta in un certo senso il seguito tematico. “I miei due film hanno lo stesso obiettivo, lo stesso stile, gli stessi attori. Anche la stessa incoscienza”, dice Zucca.

Il filo conduttore che lega i suoi due film è la sardità, o meglio: la sua voglia di giocare sugli stereotipi e i luoghi comuni legati ad essa.

La Sardegna è il posto dove sono nato e dove vivo. Bisogna tenere a mente che il cinema non nasce mai dal nulla ma da quello che uno osserva anche nella quotidianità. In particolare mi piace osservare certi ambienti del basso Montiferru, dove trovo atteggiamenti legati a tic e a modi di pensare dell’essere sardi che mi fanno sorridere. Voglio precisare che il film non contiene semplicemente dei riferimenti ad ambientazioni o temi sardi. La Sardegna è il tema. E non mi interessava limitarmi a una risata fine a se stessa.

Anche perché se la prima parte del film è dissacrante, il finale al contrario è una dichiarazione d’amore profonda per l’Isola.

Il film nasce per dissacrare sui luoghi comuni ma poi, dalla seconda parte fino alla conclusione, si trasforma in un inno consacrante sull’essere sardi. C’è una deviazione molto netta: risata, sfottò ed esagerazione grottesca lasciano il posto alla poeticità della seconda parte. Dove emerge, in definitiva, un orgoglio su quello che siamo che risulta addirittura esagerato. Una enfasi sulla positività dell’essere sardi che arriva letteralmente fino alla luna. E con una sardità che si rivela un valore che travalica i confini del tempo. Da Amsicora a Sant’Efisio fino a Grazia Deledda, Gramsci e oltre.

Ha mai pensato che qualcuno potesse offendersi sull’aspetto dello sfottò, visto tra l’altro che – come rimarcato nel film – uno dei luoghi comuni sui sardi è l’estrema permalosità?

Secondo me è impossibile. Non solo perché si parte dalla presa in giro e si arriva a una consacrazione estrema, quasi al di fuori di ogni decenza (ride). Ma anche perché i volti di coloro che scherzano su quegli stereotipi sono quelli di Benito Urgu e Jacopo Cullin. Chi si può offendere sul serio di fronte a Benito, con tutto quello che ha rappresentato per noi, con tutto l’affetto che si è saputo conquistare nel corso dei decenni? O di fronte a Jacopo, diventato un simbolo della simpatia? Se questo film lo avessero fatto dei romani o dei milanesi, magari allora sì. Ma non sarebbero riusciti a fare una pellicola del genere.

Non c’è solo da ridere però. In entrambi i film c’è una nota molto amara su alcune dinamiche delle società sarde nel tempo. Nel primo film l’inimicizia ha un risvolto tragico, ma anche ne ‘L’uomo che comprò la luna’ alcune sfumature di dolore emergono con forza.

Certo, in entrambi i film ho fatto anche delle riflessioni amare. Tutta la sottotrama dell’inimicizia dei due cugini ne L’arbitro: uno gli ruba l’agnello, l’altro gli ammazza i cani, all’interno di una dinamica di vendetta che non si ferma se non con l’omicidio. Nel nuovo film c’è una parentesi per nulla comica legata ai motivi futili per cui nell’Isola può essere capitato di innescare azioni violente. Il personaggio di Badore/Benito ad un certo punto rivela una storia tragica legata al suo passato. Il modo in cui lo racconta, l’accompagnamento musicale: tutto avviene con le corde della tragedia.

Un cambio di registro anche all’interno della stessa scena, smorzata dal momento in cui si rompe la palla di vetro con dentro il nuraghe che era l’unico ricordo del padre di Badore…

Quello di dare delle brusche deviazioni tonali, dal farsesco al tragico al poetico, è un mio pallino. Sono scarti che mi piacciono molto e che sto approfondendo sul piano narrativo. Rappresentano una delle cifre del mio essere autore e regista.

Ma in definitiva c’è una critica che porta avanti verso qualche aspetto della sardità?

In realtà non credo di voler criticare. Diciamo che ci sono cose che appartengono alla storia e alla cultura dei sardi molto meno gravi di aspetti che appartengono ad altre culture insulari e meridionali. Luoghi dove il numero dei morti è decisamente più grande, e per motivi peggiori. L’inimicizia che ogni tanto finisce male forse è l’altro lato della medaglia della grande amicizia che lega un sardo a un altro. Su alcune cose ci prendiamo un po’ troppo sul serio.

Poi c’è il personaggio di Jacopo Cullin, Kevin Pirelli, che rinnega il suo essere sardo, assume un accento milanese e nasconde la sua vera identità.

Rappresenta il cliché del sardo che si dimette dall’essere sardo. Forse questa cosa capita a tanti, in generale, come se fosse una fase: e l’ho attraversata anche io quando ero più giovane. L’idea di voler guardare oltre dimenticando da dove si viene, come se si dovesse trovare chissà che cosa altrove. Nel novanta per cento dei casi poi si torna sui propri passi, come è capitato a me. Il sardo rinnegato mi sembrava un personaggio divertente. Poi Jacopo gli ha dato carne, sguardo, accento: lo ha reso vero. È l’attore che prende una macchietta e la trasforma in un personaggio a tutto tondo. E poi se è vero che c’è il complesso dell’inferiorità del sardo che rinnega il suo essere sardo, nel film viene menzionato anche il complesso opposto: quell’evidente senso di superiorità per cui, per esempio, non c’è niente fuori dalla Sardegna che sia buono come quello che abbiamo qui. Non c’è carne argentina che possa sostituire il maialetto, insomma.

Le motivazioni di Kevin però sono meno superficiali di quanto possano sembrare.

Tutto dipende dal rapporto col suo nonno. È una questione psicologica profonda. Uno degli archetipi narrativi del cinema è quello del rapporto col padre. Io l’ho spostato verso il nonno, anche se non cambia niente dal punto di vista della storia. Per il tono da commedia del film serviva una maggiore distanza, un po’ come Paperino che non ha figli ma nipoti. Ma il problema è suo padre. Che significa, più in generale: le sue origini.

Però poi sembra riprodursi una nuova dinamica padre/figlio nel confronto con Badore/Benito Urgu.

Sì, Badore diventa il nuovo padre padrone di Kevin, ed esprime tutta la rigidità del vivere la sardità in modo spigoloso e pesante. Kevin, nel suo percorso di crescita, arriva a superare questa rigidità. Lo troviamo inizialmente biondo e con accento milanese. A metà del film è vestito di velluto. Alla fine ha una giacca hawaiana e i pantaloni corti. Il punto di arrivo non è il sardo ritagliato sul modello di Badore, ma un sardo dalla consapevolezza più moderna. C’è una differenza tra l’abbracciare in modo rigido quello che c’era prima e farlo riuscendo anche a capire che il mondo sta cambiando ed è cambiato. Possiamo essere sardi senza per forza vestirci di velluto.

C’è un regista che racconta il nodo del rapporto con la figura paterna praticamente in ogni film, ed è Wes Anderson. Che nel suo lavoro sembra essere richiamato in certe inquadrature, in certe simmetrie.

Lui per me è un riferimento chiaro dal punto di vista della costruzione dell’immagine, della scenografia e della composizione dell’inquadratura. Lo amo molto dal punto di vista estetico, meno nelle storie che racconta. Però, ora che mi ci fai pensare, non l’ho mai preso in considerazione fino in fondo per i contenuti. Se dei riferimenti ci sono, sono del tutto inconsci. La messa in scena invece è del tutto consapevole.

Proseguirà con questo filone?

L’arbitro e L’uomo che comprò la luna sono una doppietta. Ma non farò una trilogia. Quando sento i registi parlare di trilogie mi vengono i brividi, si portano sfortuna da soli. I miei due film hanno lo stesso obiettivo, lo stesso stile, gli stessi attori. Anche la stessa incoscienza. Ma non so se continuerò nello stesso modo. Magari nel terzo film cambierò tutto.

Anche lei ha i suoi attori feticcio, Urgu e Cullin. Un veterano e un giovane della comicità sarda. Come è nata la coppia nei suoi film?

Quando ho scritto la prima versione del film, una quindicina d’anni fa, non pensavo a loro come protagonisti. Però dopo L’arbitro mi veniva impossibile pensare a questi personaggi se non con i loro volti. Funzionano alla perfezione: uno alto e uno basso, uno vecchio e uno giovane, uno brusco e uno fragile. Benito riconosce Jacopo come suo unico vero erede e Jacopo riconosce Benito come unico vero maestro. Sono una coppia insostituibile.

Da sottolineare la sorprendente interpretazione di Benito Urgu, ricca di sfumature e profondità.

Quando ho chiamato Benito per L’arbitro non vedevo solo leggerezza comica: vedevo la vita e l’umanità nel suo volto. Insieme abbiamo fatto un lavoro molto intenso. Intanto sulla memoria, che non è esattamente il suo forte. Dopodiché Benito si è lasciato guidare, e ha avuto l’intelligenza di farlo. Ha capito che più si fidava di me e si lasciava andare, più lo avrei portato in luoghi che non conosceva. Ed è riuscito a dare il meglio di sé.

Invece il lavoro con Cullin – al suo primo ruolo da protagonista – com’è stato?

Un lavoro lungo e meticoloso. Ma Jacopo ha un’autocoscienza e un autocontrollo per cui è in grado di fare metà del lavoro da solo. Jacopo è un attore americano: fa quello che vuole e porta avanti in autonomia i suoi percorsi autoriali. Sono contentissimo del suo lavoro. Sottolineerei anche quello di due attori che hanno fatto due parti minori: Luciano Curreli, l’uomo scalzo, e Federico Saba, quello che sfida Kevin a biliardino, il capo degli apache sardi. È stato molto bello lavorare con loro. Infatti li ho messi nei titoli di testa anche se per contratto non ero tenuto a farlo.

Andrea Tramonte