Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

«Parliamo di vecchiaia, anzi di amore La fotografia? È per me un impegno di vita»

Fonte: L'Unione Sarda
23 novembre 2018

A 83 anni, Letizia Battaglia, grandissima fotografa, si racconta

 

 

«Ma dobbiamo per forza parlare di mafia? Non ne posso più» e poi ne parla. «E dobbiamo per forza parlare di fotografia? Parliamo di vecchiaia. Anzi, di amore». E parlando di vecchiaia, anzi di amore, Letizia Battaglia parla di mafia, e di fotografia. Di figlie, di donne, politica, passione. Insomma, di vita. La sua. Irripetibile, come quella di tutti. E speciale, come speciale è questa palermitana di 83 anni («e mezzo»), considerata la più grande fotografa italiana contemporanea, conosciuta in tutto il mondo, che mercoledì sera ha inaugurato nel Ghetto di Cagliari il Festival Pazza Idea. Lo ha fatto attraverso un'avvincente chiacchierata con Stefano Salis, giornalista del Sole 24 Ore, e con una mostra (allestita da Bruno Meloni) che propone 33 immagini di dolore, morte e bellezza pura: gli anni di guerra di mafia a Palermo, mescolate a quelle delle “sue” bambine («anche se fragili sono la forza, la salvezza delle nuove donne di domani»).
La mostra, per la durata di questa coraggiosa rassegna di Luna Scarlatta, è ospitata nella sala della Cannoniera. E vien da sorridere se pensiamo al nome di questa donna sempre in trincea, dalla parte dei perdenti (e delle donne). Non è un caso che abbia accettato con gioia di venire qui a Cagliari, invitata da Mattea Lissia, a parlare di “Femminile plurale”. Il femminile, e il plurale, caratterizzano la sua esistenza. Battagliera, tenace, e lieta. «Sì nella mia vita c'è molta letizia. Ma io non credo al destino nei nomi. Anzi, non credo in niente che sia al di là di quello che facciamo. Credo alla vita reale. Neppure la mafia è un destino. Si poteva fare molto. Potevamo debellarla, ora sono migliaia di migliaia, i mafiosi, e anche la mentalità degli italiani ha perso valori. Siamo progrediti ma anche incivili. Anche i femminicidi nascono dalla paura che gli uomini hanno delle donne emancipate».
La fotografia è un impegno sociale?
«È un impegno di vita. Se fotografi, se ami, se vivi in un certo modo, ti stai impegnando. È un tutt'uno. Io non mi sento né una fotografa, né una che ha fatto teatro, o politica. Io sono una persona che ha interessi. Quando mi parlano di carriera mi viene da ridere. Ma quale carriera! Io sono sempre allo stesso punto con la mia macchinetta. Diventando più vecchia vedo le cose in altro mondo. Sono anche fotografa, e pure bisnonna, grazie a Cinzia, la prima delle mie tre figlie, avuta a 17 anni».
Oggi la vita di un'ultrasettantenne è più piena.
«Sì, ma solo grazie alla nostra fatica. Se io mi abbandonassi alla stanchezza sarei già morta. Noi resistiamo. Anche i miei capelli fucsia sono un modo per resistere. Se hai attenzione per la vita, il teatro, l'arte, se hai energia, non invecchi. L'importante è non fare del male».
Quali sono oggi le sue priorità?
«Il Centro internazionale di Fotografia, alla Zisa. Non ha ancora compiuto un anno, è la cosa più importante».
Lei viaggia molto, è venuta anche qui a Cagliari...
«Voglio che la gente sappia che una resistenza antimafia c'è stata e c'è ancora nella mia città. Mi impegno, perché credo che tutto contribuisca ad aprire cervelli semiaddormentati. Mescolo mostre, reading, concerti, workshop con detenuti minorenni, corsi per bambini e adulti. Non voglio che imparino a fare fotografie, ma a capire che c'è un altro modo di vivere».
Qual è il potere di una macchina fotografica?
«Se non la usi per insopportabili selfie o per Facebook puoi acquisire un potere bello, importante. Come quando scrivi un libro (e lo sai scrivere). Con la fotografia hai un mezzo potente per avvinghiarti al mondo. È come fare l'amore. Quando la foto riesce, naturalmente. Fare una buona fotografia è raro, arriva come per miracolo, ci vuole attenzione, conoscenza del mondo, passione».
Una fotografia che non avrebbe mai voluto fare?
«Due, che non ho fatto: quelle delle stragi di Falcone e Borsellino. Ci andò mia figlia Shoba, che in quegli anni lavorava con me, all'Ora. Io no. Fu il mio stop. Poi io ho continuato, ma non più andando per omicidi. Era troppo».
Maria Paola Masala