Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Traviata non tradisce

Fonte: L'Unione Sarda
11 luglio 2016

 

 

L e cose che valgono resistono al tempo. Anzi, il tempo le rende più nitide, e piene di senso. È così per questa Traviata storica, firmata ventinove anni fa da Karl Ernst e Ursel Herrmann, che già dal primo atto, ieri sera, è stata accolta con caldi applausi dal pubblico del Lirico, peraltro felice di trovare, sul podio, un direttore amato come Gérard Korsten. Ospite d'onore della serata, Michael Capasso, general manager della New York City Opera, giunto con un volo speciale dagli Stati Uniti per accordarsi personalmente col Teatro sulla prossima trasferta americana della Campana sommersa di Ottorino Respighi, in programma dal 31 marzo al 5 aprile nel prestigioso teatro newyorchese. Ripartirà oggi stesso, richiamato dai suoi impegni. Tra il pubblico un altro direttore, Giacomo Sagripanti, che qui diresse nel 2011 una Traviata del Comunale di Bologna e ora torna per applaudire la moglie, Zuzana Markovà. La vibrante Violetta boema di questa Traviata ha 28 anni, uno in meno dell'allestimento dei coniugi Herrmann, ora ripreso da Joël Lauwers, con l'assistenza di Maria Paola Viano.
Quando una regia ha senso, tutto torna, e tutto è nuovo. Ritrovarla allora, con altri artisti, un altro direttore, un altro maestro del coro, significa emozionarsi nuovamente, ma anche giocare a rimpiattino con la memoria. Se la prima volta cogli quel colpo di tosse iniziale, dopo il preludio, che ti dice di come Violetta sia cosciente della morte imminente, o ti ferisce quel bicchiere che lancia contro il grande specchio del suo salotto, alla vista del suo volto emaciato, la seconda volta ti accorgi anche di quelle due figure in nero, con le facce da scheletro, che appaiono sul proscenio del terzo atto e si abbracciano. A spiegarci che questa è una tragedia e che quell'abbraccio mima la morte.
È piena di simbolismi, la Traviata tedesca. Di gesti forti, come una “Parigi o cara” cantata sul letto di lei dai due che si danno le spalle, per non guardarsi negli occhi e dirsi la verità. Non c'è speranza per Violetta, non c'è misericordia per una prostituta che osa amare un bravo ragazzo borghese. E il vecchio Germont, il padre di Alfredo, quello che in nome della morale le ha chiesto di farsi da parte, ora può anche permettersi di sentirsi in colpa, davanti a lei che se ne va. Quando l'onore è salvo, la pietà può farsi strada. Violetta muore, e con la sua morte tutto ritorna a posto. Fuori è Carnevale, il Baccanale del bue grasso, la vita che gioca con la morte, come sempre in questa storia così ricca di contrasti, così costruita intorno a un personaggio tragico e contraddittorio. Zuzana Markovà è perfetta nel ruolo. Così apparentemente fragile, ricca di sfumature. Con quel valzer che è il leit-motiv della sua storia. Triste, malinconico, vivace, travolgente, appassionato.
In attesa della critica musicale di questo debutto, resta negli spettatori il senso di un allestimento di grande pregio, che reggerebbe anche senza la musica di Verdi. Dove la rotondità delle linee - nel salotto di Violetta, nella casa di Flora, nella camera da letto della ragazza - si contrappone alle architetture squadrate del rifugio d'amore in campagna. È la circolarità dell'insensata follia che fa da contraltare agli spigoli di una vita normale, il rosso dell'eccesso alla purezza della neve e degli abiti bianchi di Violetta in cerca di riscatto.
Usano toni forti, gli Herrmann, esaltando la volgarità delle feste, la scabrosità di certi divertimenti, la licenziosità dei modi. Ma stiamo parlando del demi-monde della nostra eroina. Quello che la accetta, pur mettendole a soqquadro il salotto. Quello che si indigna, quando Alfredo le lancia in faccia il suo disprezzo. Mentre l'altro, il mondo perbene che davanti al letto di morte la piange, ne ha anche accelerato la fine.
Maria Paola Masala