Rassegna Stampa

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Mezzo secolo di Sardegna nel racconto di un “amico di uomini potenti”

Fonte: web sardiniapost.it
29 aprile 2016

Mezzo secolo di Sardegna nel racconto di un “amico di uomini potenti”

Paolo Fadda è nato e cresciuto a Cagliari, proprio come chi scrive. Ma cinquant’anni prima. Così, porto con me mezzo secolo di curiosità su questa città e sulla Sardegna quando lo incontro per parlare con lui del libro che ha appena pubblicato per l’Editore Delfino di Sassari: “L’amico di uomini potenti“. Per andare all’appuntamento passo per Piazza Costituzione, lascio alla mia sinistra via Manno, alla mia destra via Garibaldi, sono in quel centro storico che la generazione di Fadda vide devastato dalla guerra. E che ricostruì. Mi riceve nel suo studio di viale Regina Margherita, con tre grandi finestre che guardano verso il porto.

Il discorso comincia da lontano: “Io sono nato in una famiglia benestante, ma da noi, rispetto alle famiglie benestanti di Milano o di Genova, si mangiava due volte alla settimana e la carne era già un grande fatto. Le ricchezze della Sardegna erano povertà, se raffrontate alla capacità dei genovesi, dei liguri, dei piemontesi, dei lombardi”.

La premessa, che spiega il perché del desiderio che la Sardegna cambiasse e “cambiasse in meglio”, portò a un modello di sviluppo di cui la mia generazione ha vissuto soprattutto le macerie, proprio come quella di Fadda le vide con la guerra.

L'ingegnere Nino Rovelli
Nino Rovelli
Ed è da qua, dal filo che unisce le nostre macerie generazionali, che Paolo Fadda prosegue il suo racconto e arriva al primo di quegli “uomini potenti”: Nino Rovelli. Il quale, ricorda, all’epoca di cui stiamo parlando (cioè gli anni dell’industrializzazione) “pagava 15.000 buste paga dirette, era il proprietario della Sardegna”. “Ora – continua Fadda – lo si accusa di essersi comprato i giornali, ma in realtà gli furono offerti. Era un uomo un po’ naïf e a queste cose si assoggettava. Enrico Mattei, che faceva le stesse cose, è ricordato come un eroe, Rovelli invece…”

l'amico di uomini potentiNo, rispondo io, Rovelli certo non è ricordato in questo modo. Anzi, se guardo alla mia generazione, sono pochi a sapere chi fosse. E chi – perché ha letto e studiato – lo sa, non ne ha certo una bella immagine. Rovelli fu il boss della petrolchimica, l’uomo che guidò, accumulando un enorme patrimonio, quel modello di sviluppo. Perché fu fatta quella scelta e perché oggi ci ritroviamo così?

Il prezzo del “grande cambiamento”

Non arriva una risposta diretta, ma un “inquadramento del punto di vista. “Si tratta – dice Fadda – di vedere le cose come erano prima e come erano dopo. Liberandosi da quella certa visione, molto isolana, che immagina un mondo lontano e felice, violato all’improvviso da interventi e da innesti esterni: negli anni Sessanta la petrolchimica, prima ancora le miniere. Fu proprio quella estrattiva – afferma con l’autorevolezza di chi per anni è stato presidente dell’Ente minerario sardo – la prima industria che determinò in Sardegna un grande salto di civiltà: dal baratto al denaro contante, dalla miseria endemica a un’occasione di riscatto sociale. Chi per esempio oggi va ad Arbus e ne vede le case e i palazzi, capisce subito che lì c’erano i soldi. La ricchezza del minatore era ben diversa dalla ricchezza o, per meglio dire, dalla povertà dello zappatore. Là sono nate le prime leghe operaie, ed è stato un fatto di grande civiltà, ma i ricordi della gente che ha vissuto quella fase non sono legati allo sfruttamento del padrone: è chiaro a tutti che le miniere hanno portato un grande cambiamento. Ma bisogna avere memoria del prima per comprenderlo. Mio nonno, che era stato fra i primi sardi laureati in ingegneria, aveva dovuto studiare a Torino perché in Sardegna non esisteva ancora quella facoltà. E mi raccontava che il viaggio per andare da Cagliari a Torino durava otto giorni”.

Gli anni del miracolo italiano

Allo stesso modo che per le miniere, la critica al petrolchimico è, agli occhi di Paolo Fadda, un’operazione antistorica, che dimentica l’occasione di riscossa che quella forma di industrializzazione rappresentò consentendo a migliaia di famiglie di migliorare in modo straordinario la loro condizione. “La gente non capisce o non ha voluto capire che la sconfitta dell’industrializzazione in Sardegna è stata determinata da alcuni fattori contingenti come la guerra del Kippur. Nel momento in cui della nostra Isola la petrolchimica stava diventando uno dei settori trainanti dell’economia, il passaggio del costo dei barili di petrolio da 8 dollari a 35 dollari cambiò completamente il quadro”.

Paolo Fadda (presidente dell'Ente Minerario dal 1969 al 1974)
Paolo Fadda, presidente dell’Ente Minerario dal ’69 al ’74
Il punto di vista di Paolo Fadda prevede che quanto accadde da noi venga inquadrato nel contesto nazionale e internazionale. E che a partire da quel contesto – gli anni dal 1955 al 1960, gli anni del ‘miracolo italiano’ – si veda quel che accadde in Sardegna. “Erano anni in cui in Italia crescevano l’industria automobilistica, quella tessile, quella delle calzature. Ma dove eravamo indietro? Eravamo indietro nella chimica. La chimica in quegli anni era ancora legata alla Montedison, ai concimi chimici in agricoltura. È in questo quadro che va collocata la nascita dell’industria chimica in Sardegna”.

Dunque, pare di capire, per rispondere alla necessità dell’Italia di costruire un comparto industriale che mancava. E la Sardegna fu scelta come sede di quell’insediamento. “Molto in sintesi – prosegue Fadda – accadde proprio questo. Un vuoto da colmare in campo nazionale poteva diventare una grande opportunità per l’Isola. In quel momento progresso e modernità facevano rima con industria e Stefano Siglienti, presidente dell’Imi, imparentato con i Berlinguer, come Segni, capì che alla Sardegna si offriva una grande opportunità. Individuò due imprenditori, Angelo Rovelli e Riccardo Gualino, che avevano idee e capacità, ma non avevano molto denaro. Dandogli le risorse, la Sardegna sarebbe potuta diventare il grande distretto industriale della petrolchimica. Si dovette ‘inventare’ tutto dal principio. Quando nacque la Sir di Porto Torres, Rovelli comprò il know-how della Gulf. E quando a Macchiareddu nacque la Rumianca, Gualino, un altro degli ‘uomini potenti’ che ho conosciuto personalmente, comprò il know-how della Exxon. In Italia non c’era nessuno che avesse capacità tecnologiche di trasformazione del petrolio”.

Sì, ma poi. Mi permetto di insistere su quel che io vedo e vede la mia generazione. Dove si sbagliò? “Io credo – è la risposta – che uno degli errori di allora fu non facilitare l’integrazione di questi nuovi impianti industriali con la cultura e l’ambiente locale. Io sono in profondo disaccordo con quelli che ritengono che il petrolio fosse una scelta sbagliata in quanto tale, per il solo fatto che si trattava di una forma industriale che non apparteneva alla nostra tradizione. I più grandi produttori industriali di marmellata d’arancia sono gli inglesi e in Inghilterra c’è un solo albero di arancio nel giardino botanico di Londra”.

Insomma, suggerisce Fadda, l’errore fu far sì che quegli impianti, quelle ‘cattedrali’ restassero ‘nel deserto’, che non si facilitasse “l’integrazione di questi nuovi impianti industriali con la cultura e l’ambiente locali”. Non era scontato. “Si poteva farne il motore di altre produzioni. E Rovelli – dice sorprendendomi con questa diversa immagine del boss della Sir – ci provò. Provò, cioè, a collegare quelli che erano i suoi prodotti primari, con quelle che potevano essere le trasformazioni secondarie”.

Ancora: “Quando i fratelli Beretta aprirono a Villacidro una fabbrica tessile e la Snia-Viscosa ne aprì un’altra, sempre a Villacidro, avrebbero potuto utilizzare i prodotti primari della petrolchimica sarda e invece li presero altrove. Nell’ambito di una politica industriale italiana mancata, questo è stato uno degli aspetti cruciali, dove forse Rovelli non ha avuto né l’intuizione né la forza. Era un uomo di fabbrica, non aveva l’apertura mentale adeguata, di un Adriano Olivetti. Io lo ho conosciuto e ne sono stato amico, molti mi dicono che è un disonore, mentre invece è stato certamente un uomo di grande intelligenza. Quando cessa la Sir, l’Italia diventa succube delle importazioni esterne. La Bayer, la Itt producono le stesse cose che si producevano a Porto Torres e fanno enormi profitti”.

Ma allora perché noi non li abbiamo fatti? “Il grande errore molto politico- risponde Fadda – è stato di aver pensato che del petrolio e dei derivati del petrolio se ne dovesse occupare l’Eni. Che guadagna soltanto facendo trading di petrolio. Non le interessa niente il rischio della trasformazione del petrolio, è un mestiere che non è suo”.

Una banca per la Sardegna

C’è un’altra vicenda nella memoria di Paolo Fadda che sintetizza questo vizio sardo di non ragionare storicamente: la vicenda di Angelino Giagu e del Banco di Sardegna, di cui Fadda è stato a lungo consigliere di amministrazione, un lavoro fondamentale poi dilapidatosi, dice, nelle “miserie dei suoi successori”.

“Io – dice – ho vissuto per vent’anni la vita del Banco di Sardegna. È riuscito, con molte difficoltà ad avere una grande capacità di suscitare nuove energie. bancoLa presenza di un banchiere che fosse collegato anche culturalmente al territorio è stata una cosa straordinaria”. Un’esperienza importantissima, è così che Fadda la descrive, quella di una banca capace di andare allo stesso passo dell’economia della Sardegna e di parlare la stessa lingua degli imprenditori locali.

“Una delle cose che la gente dimentica: la creazione di un gruppo come Eptaconsor. Sette grandi istituzioni bancarie che si univano insieme e mettevano insieme più sportelli bancari della Banca commerciale italiana che allora era la grande banca italiana. Per fare nuova finanza, per dare a quelle che erano le banche locali, quella cultura che era delle banche di investimenti. E fu chiamato a guidarlo Stefano Meloni, di Fonni, che aveva fatto tutto il suo training nelle grandi banche americane. Era una scelta di campo. Chi aveva fondato Eptaconsor? Il Banco di Sardegna, ad Alghero, per iniziativa del dottor Angelo Giagu”.

Cagliari, le opportunità e i rimpianti

Quel che si vede dalle finestre di questo studio è, in un certo senso, la sintesi del problema generale: Cagliari, il suo porto, il luogo che congiunge fisicamente la Sardegna al mondo. È – proprio come l’industria mineraria e quella petrolchimica – il simbolo del grande salto verso la modernità, ma anche delle occasioni perdute. “Quando viene costruito il porto è chiaro che stiamo cambiando. C’è una città che comincia ad avere la borghesia e il proletariato, non più su meri e su tzeracu: diventiamo moderni”.

La Cagliari di oggi, la mia Cagliari, osservo, ha ereditato i risultati di queste diverse epopee, del processo di ricostruzione — o forse di vera e propria costruzione — di una città moderna, che poteva prendere tante strade e ne ha scelto una, o perlomeno in questa si è ritrovata. Una città ancora en marche, come l’aveva già definita all’inizio del XX secolo il suo sindaco Ottone Bacaredda, indecisa se essere una città turistica, di commercio o industriale. Quanto resta della Cagliari dell’anno zero, ancora ferita dai bombardamenti, impegnata a progettare? Della Cagliari di Paolo Fadda e delle sue speranze?


Un’immagine della Cagliari attuale
“Nella Cagliari di oggi – è la risposta – è difficile riconoscere la Cagliari dell’immediato dopoguerra. Una città che aveva un’idea di che cosa doveva essere e che oggi forse si è un po’ perduta. È difficile capire se sia ben cresciuta o sia mal cresciuta. Dal punto di vista urbanistico, direi che è mal cresciuta. Un po’ per incapacità, un po’ per la difficoltà di governare una crescita così abnorme, si è prodotta una perdita di identità che ogni giorno diventa più evidente. Ed è una perdita che si riverbera sull’intera Isola, perché tutto ciò che in termini di modernità si è prodotto in Sardegna è nato a Cagliari. Cagliari, in definitiva, ha dettato i tempi perché – ed è ciò che in Sardegna non si capisce e secondo me non si vuol capire – tutto lo sviluppo della Sardegna, non può nascere che da un porto. Un porto è l’ossigeno. Nel porto c’è tutto: ci sono gli uomini e ci sono anche i beni, la ricchezza”.

Ed ecco un’altra delle grandi occasioni perdute: la realizzazione a Cagliari di un grande cantiere navale a causa della battaglia “di retroguardia” fatta dai sindacati. “Una delle più grandi aziende norvegesi – ricorda Fadda – aveva individuato in Cagliari uno dei punti nodali del Mediterraneo perché, nel traffico dal canale di Suez e Gibilterra, era un punto di riferimento importante. E i sindacati fecero una battaglia contro, perché se si doveva fare un cantiere navale, secondo loro lo doveva fare la Finmare, la società dell’Iri, la parte pubblica”.

Non essere riusciti a fare i conti con il mare, questo il più grande rimpianto di una città che avrebbe potuto essere l’ombelico del Mediterraneo. Fadda ricorda quando nel dopoguerra si discuteva di dove ricostruire la città, ma del porto non si faceva neppure menzione. E invece questo avrebbe dovuto e dovrebbe ancora essere l’anima della città. La colpa è il continuo andare a su connottu, al conosciuto, a un mondo arcaico e supposto felice, al “mito aurorale, di una Sardegna felice in cui tutti si moriva di tracoma, di malaria”. Un mito al quale la cultura intellettuale isolana è stata sempre fortemente legata. Altre storie però esistono, altre Cagliari da raccontare. Tante. Una su tutte, che connette attraverso lo sport il capoluogo al mondo. Così, nella visione di Fadda, il momento in cui un americano, Elliott Van Zandt portò a Cagliari, attraverso l’Esperia, il basket della Nba.

Per capire questo passaggio, per così dire più futile, “occorre capire – precisa – cosa rappresentò alla mia generazione il mito americano. Si era appena usciti dal dramma di una guerra perduta e s’era rimasti vedovi, non certo infelici, di un regime illiberale, e tutto quel che sapeva di americano (fossero le life sawers, il boogie-woogie o i romanzi di Steinbeck) era per noi una straordinaria scoperta. Così anche il basket, con le sue terminologie innovative e molto intriganti, era divenuto per noi, ragazzi di quegli anni a cavallo fra il ’40 ed il ’50 del secolo scorso, un modo nuovo per vivere quel tempo nuovo che s’apriva davanti a noi”.

Fuori dalle finestre del suo studio, la vista del mare accompagna il pensiero di quel rapporto che la città ancora non riesce a chiarire, a sviluppare. Conosco aspirazioni e speranze della mia generazione, non so quali saranno i nostri rimpianti. Mentre torno verso casa mi accorgo che non è una vita quella che non si lascia dietro dei rimpianti. E capisco che la memoria storica di questa città, se ben ascoltata, può rendere il viaggio più semplice.

Maurizio Cocco