Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

La vergogna dei soccorsi: qualcuno era ancora vivo

Fonte: L'Unione Sarda
5 aprile 2016

Un'altra versione sulla tragedia «contro le falsità e le manomissioni»

 

 

La Moby Prince era l'imprevisto in uno scenario simil-bellico. Un “granello” in una partita scottante. E «il fatto che i soccorsi non siano mai arrivati» fa pensare che, solo pochi attimi dopo la collisione con l'Agip Abruzzo, sia stato costruito in fretta e furia un castello di menzogne. Primo tassello: abbandoniamo la nave al suo destino. Secondo: copriamo le responsabilità. Se le cose stanno così, chi ha ordito tutto? «Difficile saperlo», dice Luchino Chessa, figlio del comandante del traghetto. Però è giusto, è umanissimo, «provare a scoprirlo». E oggi, più di ieri, gli elementi per demolire «una verità costruita» ci sono tutti. Basta esaminarli, atti alla mano.
Le assurdità, in questa storia cominciata 25 anni fa nel porto di Livorno, sono parecchie. Ma la pagina dei soccorsi resta la più impressionante. Perché «ormai abbiamo prove certe che a bordo c'erano persone vive», accusa Chessa. E non è stato fatto il possibile per salvarle. Anzi, «non è stato fatto niente». Grande impegno invece nel tentativo di nascondere. Chi ha sottratto, per esempio, il sistema propulsivo tipo KaMeWa? È un dispositivo che registra il numero di giri delle eliche e il loro passo: così si può ricostruire la velocità e la direzione della nave. Una specie di scatola nera. Nei primi giorni dopo il disastro è regolarmente a bordo della Moby Prince. Poi scompare misteriosamente, insieme a un potenziometro delle eliche. Viene fatto sparire anche l'orologio della sala macchine, dove per il resto «è tutto a posto», compresi i post-it alle pareti.
Succedono molte cose la notte del 10 aprile. A distanza di tanti anni spunta un replay “May day”. Alle sei del mattino seguente qualcuno rilancia una richiesta di aiuto che evidentemente non è stata captata. Chi l'ha mandata? E chi la riceve e la rispedisce? «Ecco gli elementi su cui bisogna indagare», insiste Chessa. Su questo e sui nastri del Canale 16 di emergenza: un'infinità di bobine disponibili in tutti questi anni. Sulle immagini satellitari, sui tracciati radar: un immenso campo di dati finora colpevolmente inesplorato. Se ci sono state manomissioni, e ci sono state, «qualcuno è intervenuto», è la più logica conclusione. E comunque qualcuno sapeva qualcosa, sicuramente conosceva i movimenti e i traffici di quella notte. Lo Stato, la Marina Militare, la base di Camp Darby (cioè la Nato) non potevano non sapere. «Se si leggono le carte attualmente disponibili - dice Chessa - difficile credere che si sia trattato di un banale incidente», come lasciano intendere le conclusioni della prima inchiesta (della Capitaneria) durata 20 giorni: nebbia, velocità, errore umano. Tutto ciò che i familiari delle vittime, e il buon senso, non possono e non vogliono accettare.
Non a caso i lavori della commissione d'inchiesta del Senato stanno affrontando, come primo passo, «proprio la questione dei soccorsi», conferma il vicepresidente, Luciano Uras. È apparsa subito la più trascurata in tutte le sedi, compresa quella giudiziaria. Verità ufficiale dell'epoca: passeggeri e membri dell'equipaggio sono morti 20-30 minuti dopo la collisione. Ora stanno risultando cose diverse: un'altra versione che coincide con quella sospettata dalle famiglie. Di fatto quella notte i soccorsi non arrivano. Più esattamente, si concentrano sulla petroliera e scartano il traghetto. D'accordo: l'Agip Abruzzo è pieno di greggio, un incendio fa paura, c'è una priorità, però la Moby Prince non viene neppure individuata. Si salva un naufrago, un ormeggiatore dà l'allarme, ma nessuna reazione. Non si leva un aereo dall'aeroporto di Pisa, non si muove un'imbarcazione. E perché non arriva il minimo aiuto dalle navi (molte militarizzate) che si trovano in rada? C'è quasi un fuggi-fuggi generale dal traghetto in fiamme, contro ogni regola del mare. In pratica - è l'agghiacciante constatazione - si attende che la Moby Prince bruci. Mentre dentro forse c'è ancora vita. E la conferma arriva più tardi: intere parti del traghetto sono state risparmiate dal rogo.
La commissione del Senato (presieduta da Silvio Lai) ha già ascoltato le «angosciose» testimonianze dei familiari e ha davanti un quadro complicatissimo. Ha già sentito e sentirà avvocati, magistrati, tecnici, giornalisti. Procede a buona andatura: due o tre sedute a settimana. Vuole arrivare a qualcosa di concreto, ragionevole se non chiaro, «entro la fine della legislatura», promette Uras. È bene sottolinearlo: in Italia non è ricca di risultati soddisfacenti la storia delle commissioni d'inchiesta speciali. «Ma cos'altro possiamo fare?», chiede Chessa, a nome delle due associazioni di familiari delle vittime, che hanno già fornito un aggiornatissimo report tecnico. «Continuiamo ad avere fiducia, e controlliamo». Certo, «abbiamo già fatto appello a un giudice coraggioso, e lo facciamo ancora. Potrebbe anche spuntare».
Roberto Cossu