Rassegna Stampa

web Ad Maiora Media

Gli scavi nel Corso e la sindrome archeologica dei cagliaritani

Fonte: web Ad Maiora Media
9 novembre 2015


Da quando i lavori per il rinnovo dei sottoservizi del Corso hanno portato alla scoperta dei resti di un edificio romano, i cagliaritani sono stati colpiti da sindrome archeologica di cui già si palesano gli effetti, in quanto va prendendo corpo la prospettiva di una possibile pedonalizzazione della zona fino alla via Sassari, che per taluni dovrebbe diventare la grande vetrina dei cosiddetti 'fori romani cagliaritani'.

Purtroppo questa finalità, senza dubbio apprezzabile sul piano culturale, mal si concilia con le esigenze della vita moderna e del commercio che già risente in misura sensibile del blocco temporaneo della circolazione. Peraltro l’esperienza del passato non invoglia ad adottare una soluzione del genere e le ragioni sono molteplici. In merito all’urbanistica di Cagliari romana si sa abbastanza, e basta esaminare la documentazione fotografica della Soprintendenza archeologica per rendersene conto, ed anche la mostra allestita nell’autunno del 2000 dal Club Modellismo Storico di Cagliari mirava allo stesso obiettivo mostrando i resti emersi durante la costruzione della Rinascente, in seguito alla demolizione del Mercato Vecchio, e nel corso dell’intervento in via Angioy che nelle adiacenze dell’Armeria Cortis riportò alla luce una 'domus' ed un tempio.

Tutto ciò contribuisce a rendere più concreta la conoscenza della città, ma purtroppo l’elevato degli edifici era andato in larga parte perduto già in antico. Trattandosi di una città stratificata, la storia archeologica di Cagliari è inevitabilmente costellata da interventi d’urgenza, che soltanto nel caso dello scavo dell’area sottostante la chiesa di Sant'Eulalia ha portato ad un parziale recupero del quartiere marittimo di Karales. E’ pertanto ben noto che l’antica Cagliari si trova sotto i nostri piedi, ma vi è da chiedersi se avrebbe senso effettuare costose campagne di scavo per dei manufatti molto malridotti quando abbiamo dimostrato di non saperci prendere cura neppure di quei beni che sono invece visibili, come la necropoli di Tuvixeddu, la Grotta della Vipera, le case a schiera di via Tigellio, l’Anfiteatro ed il tratto sotterraneo dell’Acquedotto.

A ben vedere, anche i ritrovamenti del recente passato non portarono ad una concreta messa in valore dei resti antichi e nonostante l’entusiasmo popolare suscitato nel 1978 dalla statua di Bacco, rinvenuta in un edificio termale localizzato all’inizio del viale Trieste, nulla si fece per realizzare un’area visitabile, e si fece poco per favorire l’accesso all’area archeologica del civico 105. Soltanto quando tornarono alla luce i sarcofagi della necropoli sottostante La scala di Ferro, l’Amministrazione Floris avanzò l’ipotesi di far approntare un plastico della città antica, ma come al solito non si andò oltre le buone intenzioni. Oggi si parla di sventrare il Corso, ma servirebbe soltanto a mettere in crisi il quartiere e ad impoverire la sua già stentata economia: se proprio si vuole scavare lo si faccia nella zona di Palabanda (dove venne trovato il Mosaico di Orfeo oggi a Torino), che attualmente ospita un’area archeologica semiabbandonata costellata da edifici moderni senza alcun pregio, in prevalenza costituiti da garage che potrebbero essere demoliti per ampliare la zona da scavare.

E’ preoccupante che si affidi il futuro di Cagliari alle operazioni culturali e alla pedonalizzazione, trascurando il ruolo dei quartieri che sono il volto vivo della città, ma necessitano di essere valorizzati e dotati di adeguati servizi. Anziché trasformare la città in un chiassoso fastfood bisognerebbe creare lavoro, puntando sulla promozione turistica e anche sulla cultura ma dopo averla affrancata dai condizionamenti ideologici, di cui la mostra promossa dal Fai sulla “Memoria ritrovata” è una chiara dimostrazione. E non è un fatto isolato: un altro caso che vale la pena di richiamare è avvenuto a Villamar. Infatti, in questo paese della Marmilla, dove è stato localizzato un villaggio punico i cui abitanti si nutrivano di cereali e di legumi, il contesto storico è stato presentato in modo distorto dalla direttrice degli scavi la quale, sostiene che la presenza di questa comunità non é da correlare ad uno stato di occupazione bensì all’incontro di due culture aventi stili di vita e riti integrati. Appare evidente che questa affermazione è il frutto di una manipolazione politica influenzata dalle posizioni della sinistra sull’emigrazione, mentre rifacendosi alle valutazioni del professor Giovanni Lilliu si potrebbero dire cose molto diverse sul presunto pacifismo dei cartaginesi in terra sarda.

Emilio Belli

(admaioramedia.it)