Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Arpagone è come il Faust Coi soldi compra la gioventù

Fonte: La Nuova Sardegna
4 marzo 2014


 
Intervista al regista e attore Arturo Cirillo, da domani nell’isola con “L’avaro” In scena tra gli altri con Monica Piseddu, Sabrina Scucimarra e Salvatore Caruso 
 
 
 
 
 

di Roberta Sanna

CAGLIARI Arriva domani al teatro Massimo (in scena sino a domenica, poi lunedì approda ad Olbia) l'Avaro di Molière interpretato e diretto da Arturo Cirillo, prodotto dagli Stabili di Napoli e delle Marche e ripreso per un terza tournée «tra successi e difficoltà distributive». Racconta il regista e attore quarantacinquenne - tra i protagonisti della prosa contemporanea italiana, cresciuto artisticamente nella compagnia di Carlo Cecchi - di come fosse attratto dal tema della vecchiaia, «mi appartiene come fantasma», dice, e del suo interesse, anche come interprete, per il personaggio di Arpagone. «Attraverso la forza dei soldi vuole comprare, conquistare giovinezza e vita, sottraendola in un certo senso proprio ai figli. Cui vuol dare coniugi anziani e ricchi, mentre riserva per sé una giovinetta. La sua avarizia consiste pure in questo bisogno disperato di avere ciò che non può più essere». Quasi un parallelo con il patto in Faust. «Si vuole impossessare di un tempo che per lui è passato, attraverso i poteri economico e patriarcale. È un padre che mangia i propri figli. Un sottrattore di vita», conferma. Vuoto di relazioni umane. «La cassetta che stringe a sé, è fondamentalmente vuota. Ho lavorato su un’idea più ampia di avarizia, più estrema e generale. Che oggi può richiamare quella della grande finanza, quella, disumanizzante appunto, dell’accumulo». Vecchiaia e avarizia dunque, le chiavi dell’allestimento. E l’ossessione. «Considero Molière un autore fortemente ossessivo. Un teatro “malato”, una visione nera, in cui la comicità è di situazione, di conseguenza. Anche se ci sono personaggi buffi, l’Avaro non lo è per niente.

È un personaggio sinistro e nero, dark. Atmosfera resa anche scenograficamente attraverso quattro cornici concentriche che creano una sorta di imbuto, di enorme scrigno. Un ambiente claustrofobico. Anche le sonorità sono ossessive. Ma la chiave nera non impedisce quella comica». In questo spettacolo è regista, capocomico e primo attore. In che forma non segue Arpagone e può dirsi generoso con attori e pubblico? «Con gli attori, perché scelgo la distribuzione più adatta, non sempre il mio protagonismo. Cerco di farli sentire corresponsabili, quasi autori della messinscena, lavorando su idee e immagini di ciascuno. Non impongo la mia idea sul personaggio, non lavoro sulle intonazioni ma sulla capacità dell’attore di inventare, attraverso se stesso, un altro. Non credo totalmente ad un teatro di regìa come operazione chiusa. Lo spettacolo non finisce di crescere dopo la “prima”. Ecco perché trovo interessante continuare ad essere in scena anche come attore. Lo spettacolo matura. E muta anche in rapporto col pubblico. La reazione e lo stato d’animo del pubblico determinano quello che è ancora un rito collettivo. Per me il rapporto con la sala è sempre presente». Oltre a Molière tra le sue regie ci sono Copi, Otello, Scarpetta, Ruccello e l’opera di Rota Napoli milionaria. Un insieme variegato, cui si aggiunge ora il debutto di “Zoo di vetro” di Tennessee Williams. È la scelta o il caso a guidarla? «Entrambi. Per l’opera di Nino Rota, che ho fatto anche qui al teatro Lirico nel 2011, sono stato chiamato. Per “Zoo di vetro”è un po’ per caso e un po’ per scelta. Annibale Ruccello, che amo molto e di cui ho messo in scena tre lavori, tra i suoi modelli aveva fortissimamente Williams, lo si capisce per certe figure femminili. Ho tolto i riferimenti storici agli anni ’40 americani, spostandomi in un altrove non necessariamente italiano. Lo sono i riferimenti musicali, le canzoni di Tenco. Mi sembrano il corrispettivo di certe atmosfere che sento molto nel testo. Il senso della rinuncia, il rimpianto per una vita che poteva essere diversa, la fortissima insicurezza di sé. Ho prediletto, facendone un viaggio intimo e poetico, il racconto del nucleo familiare e le relazioni tra i personaggi».